Chiara Cremonesi

Scriveva Izet Sarajlić, poeta della Bosnia Erzegovina morto a Sarajevo il 2 maggio 2002: “Solo adesso che la mia testa si è coperta di brina, / che ho paura che il suono della campana possa essere per me, / solo adesso che si allontanano i violini, / so chi è il poeta. Poeta è quello, / quello che sempre ricomincia daccapo”.

Di Chiara Cremonesi (1936-2014) si potrebbe dire che tutta la sua vita (oltre che la sua poesia) è stato un “ricominciare da capo”: dopo la forzata rinuncia alle scuole regolari, è servito ricominciare a studiare per ottenere, con l’aiuto e l’incoraggiamento del nonno, la licenza media; dopo una giovinezza quasi da reclusa (ancora, in quegli anni, l’handicap fisico non era benvisto dalla società), è servito ricominciare a lottare per ottenere un posto di lavoro; dopo il pensionamento è stato bello riscoprire la vena poetica e ricominciare a tessere versi, fino alla pubblicazione del primo volume, Ad ali aperte (2000), splendido libro d’esordio che metteva a nudo l’anima esacerbata e in ricerca della non certo giovane poetessa. Ma anche in poesia per lei si è trattato di “ricominciare” sempre daccapo, di capire l’importanza di allontanarsi da certa retoricità e descrittività eccessiva, per prosciugare e affinare l’espressione, per giungere a pronunciare sentenze perentorie in uno stile sempre più scarno e acuminato. Ecco quindi nel 2006 la prova di maturità, la raccolta Lo zolfo dei giorni, dove l’aspetto ritmico - metrico e quello retorico risultano accuratamente ricercati, ma per nulla sovrabbondanti o superflui, mentre l’arte si satura di parole brucianti, disincantate, spietate nel denunciare le contraddizioni insopportabili dell’esistenza, i drammi nascosti dell’essere umano.

Attraverso il tragitto dentro questo inferno quotidiano (fisico e psicologico) descritto con feroce lucidità, Chiara Cremonesi non ha dunque risparmiato né al lettore né a se stessa il confronto con la realtà, anche la più squallida e opprimente: ma attraverso la poesia ha voluto sempre cogliere la bellezza del mondo e diffondere intorno a sé i valori profondi e immutabili che val la pena ricercare e coltivare.

Nonostante le sofferenze che avevano fin da subito solcato la sua esistenza, infatti, ella ha voluto esprimere in poesia anzitutto l’amore per la vita, l’attenzione ai sentimenti veri e profondi, i ricordi che la tenevano legata alle figure più importanti della sua vita: la madre premurosa e sensibile, il nonno affettuoso e lungimirante, gli amici. E in poesia ha sempre cercato di “ricominciare”, spinta da quella insoddisfazione che ci dà la misura del vero poeta, il quale vorrebbe folgorare il lettore, ma spesso si rende conto di non essere stato in grado di esprimersi con vera efficacia: e dunque ricomincia a correggere e a limare, non rinuncia mai a seguire le vie della poesia, continua a sfiancarsi quotidianamente per illuminare con il verso la vita propria e l’altrui.

Lettura

Amico mio poeta, non temere:

non sono le parole nere

        – chiuse

        nelle impilate pagine di un libro –

a rispecchiare, fragile, me stessa.

È dentro te che leggo la bellezza

del mondo, inabissata nella mente;

ed il ricordo d'ogni tuo pensiero

si fa memoria dei pensieri miei.

 

Non sono sola

                      – non sono più sola –

se tu mi dici d'aver pianto e riso

e che il vivere ti è costato tanto. 

2000

Liberty

L’ebbrezza leggera

di un fiore

               di ferro

sbocciato - forgiato –

da mani bruciate da fiamma

inesausta di bellezza.

Libellule tese nel volo

rapite da tenui volute

di ferro.

 

E poi volti fini,

nascenti da miti, lontani

in muto stornello, narranti

le fiabe cullate nei sogni,

nel marmo.

Balconi che occultano visi di donna

e sbuffi di gonna

fra adorne colonne

di marmo.

2003

Racconto lontano

Fumavano i camini

sui tetti nevicati

e il ghiaccio della notte

scolpiva stalattiti alle grondaie.

 

Da fessure di tegole sconnesse

il passero volava ai davanzali

a becchettare briciole di pane.

 

Tra poveri è assai facile l’intesa.

2006

Le fanciulle di maggio

Le fanciulle di maggio

smuovono l’aria in abiti leggeri;

con gesti brevi sbrigliano i capelli

in onde sinuose al vento lieve,

odorano di rose appena in boccio.

 

Il tempo le percorre in trasparenza,

non hanno scorta di passato, ma

con rosei volti guardano al domani.

2006

Voce

La voce si diffonde nella sala,

legge i miei versi.

Si esaurirà indulgente nell’applauso

o busserà, leggera, alla tua fronte

chiedendo di restarti nella mente?

 

La sentiresti il giorno dell’angoscia

compagna della strada che percorri,

dove tra i sassi rotolanti

sotto il malfermo passo

pungono acute spine.

2007

 

L’insondabile

È stato forse tutto vero

quel che hanno detto su di me

La poesia, che fluisce netta,

è fiamma d’oro che riscalda

o pianto asciutto che raggela

 

Resta insondabile la fonte

che mi congiunge all’infinito

2007

Fuga

Squallida sera

accecata di luce;

è tutta verticale, a fil di piombo;

crepe sui muri imbrattati di sfregi

e celle di vetrine taciturne,

anche l’ombra di me si è cancellata.

 

Ho un brivido di febbre solitaria,

e l’anima mi sfugge, impaurita.

2008

Senza tempo

Se varco il foglio bianco che ho davanti,

sconfino spazio e tempo

e il dolore che scrivo è senza data,

come la gioia,

liberi di narrarsi ogni momento.

 

Il nebuloso velo del futuro

lo tengo, con due dita, largo al vento

che abbia, vivi, i colori del mondo.

Quando lo lascerò

certo un poeta

ne coglierà le tinte sopra il mare.

2008

 

Dopo…

Non voglio altri cieli ed altra terra,

tornerò qui con la mia gente;

la terra sarà estesa all’infinito

e le radici fisse nell’eterno.

 

Il primo vento, espirato dal mare,

dissolverà le armi in sabbia fina.

e l’abominio

di sangue sulle strade,

dileguerà in un fulmine turchino.

 

Andrò, senza le strida dei motori,

gioiosa di bellezza, attorno al globo:

poi Lui mi attirerà nella Sua luce

e l’universo non avrà misteri.

2009

Preghiera all’artista

La fine ha fine dentro l’infinito.

Tu che sconfini gli orizzonti e vai

con la suadente luna oltre le stelle,

che sulla terra adduci la bellezza,

narrami l’oltre e l’oltre ancora

ch’io sia me stessa e non un vuoto grigio.

2010

Leggere

Il lume tenue

dissolve le parole nere

in essenza profonda,

sorella al mio sentire

 

è melodia di sottili arpeggi,

di squilli alti più del sole

di cieco rollare di tamburi

ruminanti il passato.

 

Lo stanco vivere del giorno

si allevia in fantasmi di sogni,

brividi alati di farfalle

che precorrono il sonno.

2010

Insopprimibile

Dentro il caustico pozzo dell’oblio

ho stornato da me la tua sembianza.

Le parole consunte che ripeti

sfumano in fiato al gelo del tuo nome.

 

Solo nel sonno greve mi ritorni,

e a spalla a spalla m’intrecci la mano.

 

Un ranuncolo giallo ed una foglia

spaccano la saldezza dell’asfalto.

2012

Roberto Taioli

Il pensiero filosofico (in senso lato) ha sempre affascinato Roberto Taioli, poeta, saggista, docente milanese: il suo retroterra culturale si riallaccia alla riflessione greca come a quella biblica e patristica, spazia dai versi lucreziani al karma induista; senza dimenticare l’influenza straordinaria che ha avuto su di lui la cosiddetta “linea lombarda”, da Luciano Erba ad Antonia Pozzi fino a Vittorio Sereni. Ed è a partire da queste fondamentali coordinate culturali che la sua poesia si è snodata, soprattutto nel corso degli ultimi due decenni, prima con Segnavia (1996), raccolta densa di echi montaliani e di riflessioni filosofiche, poi con il trittico dedicato alla Val d’Ayas e all’Alpe Cortot, una montagna aspra e “petrosa” dove il poeta ritorna da molti decenni, evocando e ricostruendo nella memoria la natura atemporale e quasi metafisica dei ruderi, delle pietre, degli edifici superstiti alla devastazione del tempo.

Un ulteriore sviluppo della sua poetica si nota poi nell’ultima plaquette del 2006, Natura naturans, e nei recenti versi inediti, dove è ben visibile l’approdo ad un pensiero mistico intrinsecamente imparentato con la filosofia di Simone Weil, di Edith Stein, di Cristina Campo; questo porta la poesia di Taioli ad assumere un respiro cosmico e lato sensu religioso, senza che mai egli perda di vista le realtà concrete e i rapporti umani significativi. In particolare il poeta non può prescindere da due eventi per lui esistenzialmente cruciali: la morte del padre e i reiterati colloqui con Michele Do, straordinaria figura di prete, amico di Primo Mazzolari, di David Maria Turoldo, di Ernesto Balducci. Da un lato dunque la percezione di aver forse trascurato in vita il dialogo con il padre spinge il poeta a un dialogo con lui sempre più intimo, che conduce il figlio al raggiungimento di una profonda pace interiore e ad un nuovo incontro in absentia con il genitore. Dall’altro lato il lungo e profondo rapporto con il prete piemontese si traduce in pagine di sofferta ricerca negli alpestri luoghi amati, dove la presenza divina è costante e interpellante, mentre il paesaggio (reale o metafisico) si fa occasione di ricordi e rievocazioni, di amarezza e sollievo, di domande senza risposta, di preghiere quasi mute.

Non dire lo sconcerto

Non dire lo sconcerto

nell’ora del crepuscolo:

la nuova primavera assale

di nebbie e squarci di sole

il tuo cammino sull’orlo

del tuo limite. Forse

è questo clinamen

questa devianza delle cose

il solco impreciso

che ti fa stare quaggiù;

o forse il tuo peso

è questo lento radicarsi

del tempo, questa fatica

grigia e impervia che dura

come l’ultima salita.

Cos’altro t’attende?

La curva è cieca

la svolta senza margine

e il tuo nome è scheggia

breve come l’aforisma.

Su una vecchia lettera di Vittorio Sereni a me 

Nel finale si congeda

breve la tua lettera

scritta a sghimbescio

ritrovata gialla

nella pagina tarlata.

Non più ricordavo

che l’avevi mandata.

In nuvole di polvere

passarono quegli anni

senza età

d’un fiato corsi.

Quel discorso allora

di pigrizia quotidiana

di stanchezza a scrivere

per chi appartiene

alla – dicevi – tribù

poetante mi scavava

nel solco d’inchiostro

oggi un poco mi graffia.

Nel ventennio che separa

(forse anche di più)

c’è stata tra l’altro

la tua morte

e tanta altra vita

consumata – Vittorio –

nell’aurora giovanile

in quella scossa a cercarti

al di là della carta.

A me allora

tu esitante forse eri

maestro nascosto

fuggito in quel bianco

posto di vacanza.

E adesso che rileggo

il tuo rapporto,

da laggiù non so se sai

barlume di me

che ritrovo il tuo

esile graffio di penna

il tuo dubbioso porto.

Biciclette volavano

Biciclette volavano

(quando ognuno si rintana)

 

mangiavano la strada polverosa

fino al paese di sotto.

Calavano come falchi

sospinte dal vento

 

una davanti all’altra

cavalcata da un ragazzo

a mordere la strada.

 

Si tornava poi senza ansia

davanti all’albergo

ancora muto

dopo pranzo

quando la gente dormiva.

 

E tu avevi saltato il sonno quel giorno

volando con me tra terra e cielo.

Challant

Challant si piega

nella sua ferita.

Urge andare all’oltre

ove il monte si spezza in altro monte

e un paese insegue l’altro

sul poco fiato della strada.

Vennero e scompigliarono

poi sedarono rivolte

ed eressero mura a ridosso

dei colli, fecero battaglie e paci,

amori e preci

al dio dei venti

al dio dei laghi

alla Madonna delle nevi

e poi restano capitelli

come esili paracarri

sul filo delle acque.

Non vidi il padre

Non vidi il padre

ma il padre nel figlio

lui che lo lasciò

lo infranse nella morte

e l’altro lo raccolse

come pelle e pane

e me lo svelò

ora che non c’è più

più chiaro nelle tenebre.

Lo dissepolse vivendo

per me

lo rese invisibile

e io lo riconobbi

lo rincorsi lo cercai

ma fuggì evaporò

svanì nei folti silenzi

mi parlò senza parole.

Al compianto

Al compianto dei morti

la terra sa l’odore dei fiori spenti

prima d’esser cambiati.

Ma sono fiori e la terra,

non i morti che hanno il respiro

dei vivi . Esseri di mezzo

partecipiamo di qua e di là

anche al compianto di noi stessi,

della parte nostra che è morta in loro.

Casa a mare

Da tempo a tempo

come donne senza tempo

Il volto ti rappresenta

avanti al mare tra le foglie.

La stessa casa

un’altra donna seduta

tra scalini d’ardesia.

Eri tu sei tu

in un rimbalzo

ti vedo così

accovacciata

tra il vento fresco

che gonfia le gonne.

Madre

Ora che nulla più ti serve di quaggiù

lascia che sia io a custodire

il lungo cappotto verde

che ti segnò la vita

degli ultimi anni

 

e che riposa afflosciato

per sempre là dove lo lasciasti.

 

Libera di pesi

senza più freddo e affanni

siamo noi che chiniamo la testa

sulla terra.

Non m’accorgevo ma eri.

Tram

Così perso naturalmente mai

la sera fioriva di gelo

e quelle luci di tram in lontananza

bucare a sera il buio della via.

L’umanità non serve

per raccogliere i cascami della vita.

Il tram rigira scuro nel binario morto

vuoto alla fermata.

Quante volte salisti

o discendesti in fretta per tornare

a casa a notte fonda

ove nascondere il domani

che verrà o non verrà

nascosto tra le foglie del viale.

Mario Luzi

In occasione dei suoi novant’anni così si esprimeva Luzi: “Più siamo prossimi alla morte, più si entra in confidenza con lei. Quando siamo un po’ al di là della ‘siepe’, questa frontiera perde consistenza. Penso che un po’ tutti, con la vecchiaia, acquisiscano questa serenità del passaggio ad un altro livello di presenza nel creato. Senti che c’è questo transito naturale, a cui non puoi opporti e che accetti proprio come fatto di natura”. La morte, dunque, come un passaggio naturale, necessario per accedere a un livello diverso e più intenso di vita. È questo lo spirito che si coglie nei testi postumi pubblicati da Garzanti nel 2009 con un titolo tratto da quella che è forse l’ultima poesia scritta dal grande poeta fiorentino: Lasciami, non trattenermi.

Questi testi esprimono ancora la costante ricerca luziana del senso della vita e la felicità della scoperta che tutto nel mondo è necessario, significativo: ma tocca all’uomo scoprire e intendere “la gioia / e il dolore del creato / di fronte al suo miracolo” (L’aquila, la sua alta richiesta), inseguire il Dio che procede “nella penombra” mentre il poeta al buio inciampa o sbanda, sempre avanzando verso la luce, guidato da quella “fede che smuove le montagne” (Partimmo – rischioso era il cammino). È un Cristo (quello di Luzi) che resta sempre misterioso, anche qui dove “faticosamente disincarna / la sua dolorosa incarnazione” (Frattanto scoscende l’uomo-dio); è un Dio che il poeta interroga sul futuro oltre la morte fisica (“Dove / e come saremo?”, Noetica; “Oh Dio del mondo / quando sarò rinato?”, Nello stormo), rintracciando nell’universo i segni della “molteplicità / dell’unico che è” (È lì, oltre la balaustrata).

Sono testi “petrosi” quelli raccolti in questa silloge postuma, impervi ed enigmatici, ma nitidi e intensi: dove accanto a “stelle, pianeti, angeli” (Astor) Luzi non cessa di ammirare oggetti quotidiani come l’Arno che “prepara il suo settembre” (nella poesia omonima), le colline (Desiderium collium aeternorum), “la via brulla di Siena” (Anche una volta), aironi e germani (Vicino alla sorgente), chiocciole e bruchi (L’aquila, la sua alta richiesta), “le pecore, / gli armenti” (Ecco, c’è movimento), “le antilopi, i mosconi” (Oh, quanti sono); e fiumi, mari, monti, animali, piante, cieli, campagne, ruggine, vetro, metallo, marmo, pietrame, torri, mura, campanili, meridiane, balaustre, caligine ed argento, oro e turchese, “miscuglio d’ogni colore e tinta”, in una fantasmagorica e iridescente summa dove è possibile cogliere “la vita [che] si trasforma in sé perpetuamente” (Noetica), “l’armonia sovrana” del cosmo (Astor), “l’ordine, / la necessità in cui siamo / […] tutti insieme, / noi creature” (L’aquila, la sua alta richiesta).

Veramente un canto senile (come titola uno dei testi più belli della raccolta), che però non si chiude nel pessimismo, nel disincanto, nella rinuncia, ma dilaga con straordinaria felicità.


Poetry

Scriveva con lena il suo poema

lui, ma l’anima dov’era?

Non c’è in queste sillabe,

                                               respira

appena

            nella chiara linearità del tema.

Dov’era la sua celeste vena?

altrove pasceva il suo patema,

il sogno, lo sgomento…

O forse sono io che manco

al misericordioso appuntamento,

non ne colgo l’immanenza

nel deserto

                    delle lasse, delle stanze,

postero disattento,

                                   ascoltatore inesperto.

È fioca la sua voce

sì, ma non in ogni parte.

                                         Gioca

con la mia ottusità

come allora con lui scriba

lei ubiqua, lei inafferrabile,

canta nell’universo,

risponde da altri lidi

a quella latitanza.

Oh come il senso della vita cangia,

come l’immagine sua danza!

 

Partimmo – rischioso era il cammino

Partimmo – rischioso era il cammino,

finimmo in questa fossa

dove a stento entra un barlume

del giorno che lassù,

sentiamo, raggia cristallino.

Avanza lui nella penombra, io

al buio lo seguo o lo precedo, inciampo,

sbando, ma il corpo ci presidia,

da passi rovinosi ci trattiene,

                                               la memoria degli arti

ci orienta e ci dirige

senonché

                   lontano è,

se c’è il forame dell’uscita

e lui già smania, anela

la luce, la salvezza.

La pazienza tace, non gli

dice niente la scienza

                                      sua che non sia fallace…

e io: fede che smuovi le montagne: facias.

 

Alzati a volo

Alzati a volo fin che puoi, raggiungilo

qualunque sia

                        il tuo apice d’ascesa

e d’altitudine, discendi

poi nella profondità dell’aria

e nella tenebra del mare

non però a capofitto, attento!

                                                  evita i gorghi

d’oscurità

                 da cui è difficile riemergere

e di essi dire ti è negato –

                                               lo sappiamo.

Sta’ nei limiti tuoi, usa

la calma, la perseveranza,

l’attenzione dei sensi,

della mente – questo dicono

esperti consiglieri alla mia insufficienza

non sapendo che il patto è già concluso

tra ansia e finitudine

e c’è pace terrena e ultraterrena, c’è.

Di te molto, mia terra,

mi è inciso

nell’anima e nel viso,

mi è scritto nelle carni,

ma tu di me rechi pure qualche traccia,

ti prego, non polverizzarla

del tutto, finché tutto sia compiuto.

 

Frattanto scoscende l’uomo-dio

Frattanto scoscende l’uomo-dio

dentro l’abisso

della sua profondità,

scompare a sé medesimo,

faticosamente disincarna

la sua dolorosa incarnazione,

discrepa con dolore

            dalla sua materia

ma non se ne scompagna:

e il tempo, il suo ricordo

brucia tutto di sé

nella luce di un lampo…

È pura analogia

pensata

dal pensiero onnipensante

o accade precisamente?

accade, accade

l’analogia

come accade l’evento,

                         l’eveniente.

Tutto è compiuto?

                                oppure ha cominciamento?

 

L’aquila, la sua alta richiesta

L’aquila, la sua alta richiesta

di vita

            d’aria

                        e volo

                                   ci sovrasta

eppure non umilia

il nostro terra terra

di chiocciole e di bruchi,

                                   c’è concordia

con il nostro tardigrado rettare,

col remeggio delle pinne

e delle branchie

dei pesci e dei molluschi

nelle profondità del mare,

l’ordine,

              la necessità in cui siamo

ci congiunge tutti insieme,

noi creature. 

                                   Nell’aria

al suolo

            si incrociano,

si guardano,

                        si conoscono,

                                   si ignorano

il movimento delle schiere,

le crociere degli stormi,

                                        il turbinare

brulicante degli sciami.

Quieta è questa agitazione

vi si esprime la gioia

e il dolore del creato

di fronte al suo miracolo…

In quella inquietudine è la quiete,

è l’essere anche quando

in un lampo di grazia

giubila e si comprende

negli occhi di una santa adolescente.

 

Canto senile

Tu gioventù che avanzi

                             e splendi

e fai apparire opaco

tutto quel che non sei tu…

Ignora non di meno

                                   chiunque

il tempo quando coglierti.

                                      Al principio

a mezzo

                all’estremo

del tuo increscere,

                                   quand’è

frutto, che pendi

più luminoso dal tuo ramo?

Non sa nessuna sorte

niente di sé

                        ma impera…

Oh gioventù, sii vera,

dissolvi le tue remore,

quando è l’ora…

 

Lasciami, non trattenermi

Lasciami, non trattenermi

nella tua memoria

era scritto nel testamento

ed era un golfo

di beatitudine nel nulla

                        o un paradiso

di luce e vita aperta

senza croce di esistenza

che sorgeva dalle carte

ammuffite nello scrigno.

E lei non ne fu offesa,

le nascevano, né sentì prima rimorso

e poi letizia, impensate latitudini

nella profondità del desiderio,

ecco, la trascinava

una celestiale oltremisura

fuori di quella ministoria, oh grazia.

Si scioglievano

l’uno dall’altro i due

e ogni altro compresente,

si perdevano sì,

                            però si ritrovavano

perduti nell’infinito della perdita –

era quello il sogno umano

della pura assolutezza.

Bartolo Cattafi

Nonostante le numerose raccolte edite in vita (si ricordino, tra le più importanti, Le mosche del meriggio, 1958, L’osso, l’anima, 1964, L’aria secca del fuoco, 1972, La discesa al trono, 1975, Marzo e le sue idi, 1977, L’allodola ottobrina, 1979) e l’omaggio postumo resogli da Mondadori nel 1990 con la pubblicazione dell’antologia Poesie 1943-1979, Cattafi resta tuttora quasi ignorato dal grande pubblico e dai critici. Ed è un peccato che questo poeta (e pittore) di grande intensità emotiva non abbia il meritato riconoscimento.

L’entusiasmo comunicativo che lo contraddistingueva attingeva alle sue numerose e variegate letture, che spaziavano da Ungaretti agli ermetici, dalle avanguardie europee al surrealismo, dagli americani di Vittorini ai contemporanei spagnoli, senza dimenticare l’influsso che a lui derivava dalle frequentazioni artistiche cui si dedicò nel corso della non lunga vita (1922 – 1979) e gli incontri milanesi con letterati e critici come Giovanni Raboni, Vittorio Sereni, Vanni Scheiwiller, Carlo Bò, Giansiro Ferrata, Sergio Solmi.

Siciliano “esule” a Milano per vent’anni (1947 – 1967), Bartolomeo Cattafi era sostanzialmente insofferente alla routine quotidiana, per cui, ottenuta una relativa indipendenza economica, alla fine degli anni sessanta abbandonò il poco amato incarico giornalistico e tornò in Sicilia con la moglie, dedicandosi esclusivamente alla poesia e all’attività grafica. Partito da un iniziale descrittivismo, egli giunse via via a “un registro sostanzialmente astratto-speculativo (aperto, con frequenza, a inflessioni oniriche e cadenze ‘oracolari’)” (G. Raboni); in tal modo la realtà descritta, senza mai sparire totalmente, si trasfigura e quasi mitizza, donando al dettato una densità metaforica straordinaria. La scrittura parte ancora sempre dalla terrestrità, dalla concretezza dell’oggetto (come ebbe modo di dire in un’intervista, egli considerava quella del poeta “una pura e semplice condizione umana […] un modo come un altro di essere uomini”), ma attraverso l’attenzione amante del poeta / pittore l’oggetto finisce per rivelare le sue caratteristiche più nascoste e profondamente vere.

L’ultima stagione creativa lo porta infine a una ricerca religiosa intensa e personale: abbandonata l’illusoria speranza di poter comprendere razionalmente il mondo, egli si dedica a tracciare un bilancio della propria esistenza. Ne sono fulgidi esempi La Grazia, testo confluito postumamente nella raccolta Codadigallo, cui il poeta lavorò alacremente negli ultimi mesi di vita dopo che gli era stato diagnosticato un tumore ai polmoni; e Geografo, un autoritratto, quasi un testamento spirituale in minore, che egli scrisse pochi giorni prima del suo ultimo Natale.

Eolie

Le Eolie le azzurre parole

sono sorte nell’acqua nel mattino di gioia

come vergini calme con un faro

bianco nel cuore

una linda nuvola sopra.

Brughiera

La stagione finisce in questo suono

di eriche e di vento. Va’ amore,

o macchia della mente, rosa triste

desisti dal dominio.

Là in esilio riluce il vagabondo

frammento d'una stella, l’altra sorte

travolta in altri cieli.

(Danza ancora allo specchio

col piede smuovi la cipria

d’un raggio invernale, e piega il collo

piega il collo al solletico

d’un topo impaziente.)

La stagione è finita; ancora vivono

il dente infisso nel centro della mano,

ciò che la spina lentissima ci scrisse.

Una lampada gracile, l’allodola

rientra incerta, s’addentra sull’immoto

colore di brughiera.

Partenza da Greenwich

Si parte sempre da Greenwich
dallo zero segnato in ogni carta e in questo
grigio sereno colore d’Inghilterra.
Armi e bagagli, belle
speranze a prua,
sprezzando le tavole dei numeri
i calcoli che scattano scorrevoli
come toppe addolcite
da un olio armonioso, in un’esatta
prigione.
Troppe prede s’aggirano tra i fuochi
delle Isole, e navi al largo,
piene, panciute, buone
per essere abbordate dalla ciurma
sciamata ai Tropici
votata alla cattura
di sogni difficili, feroci.
Ed alghe, spume,
il fondo azzurro in cui
pesca il gabbiano del ricordo
posati accanto al grigio
disteso colore
degli occhi, del cuore, della mente,
guano australe ai semi
superstiti del mondo.

Il giorno dopo

L’autunno ha mari teneri, ha colori

che calme navi tagliano; cadranno

foglie e cieli sospesi per un filo.

Andare sino all’albero, sedersi,

entrare in confidenza con l’inizio

di radiche più avide e vive verso il basso.

Abbiamo accanto povere fredde cose,

bucce, bottiglie, frammenti di memoria,

più in là c’è il mare.

«L’ultima domenica», e ci trovi

ancora ansanti, il cuore

un poco stanco per la festa,

branco che più non fugge, prede

colorite dal ferro irto nel mondo

dal vino, dai fuochi solitari.

Ci vinse

questa striscia di fumo sulla terra,

fu sempre obliqua l’ombra

che ci seguì in silenzio.

Tabula rasa

D’accordo, amore. Espungiamo

dal testo perle d’acqua
su petali,

le frange estese,
le bolle della schiuma.
Le cose lietamente necessarie.
Togliamo anche
l’acqua l’aria il pane.
Giunti all’osso buttiamo
fuori della vita
l’osso, l’anima,
per credere alla tua
tabula che mai
avrà l’icona, l’idolo, la cara calamita?

Visita

Esitò sul filo della soglia
entrò e fece il giro della stanza
si posò in un angolo d’ombra
benché disvelandosi di poco
si vide ch’era
di struggente bellezza.
Mal me ne incolse quando
un fremito percorse le sue ali
preda d’un vento interiore
e foglia fiore vagante farfalla
del mio mondo perduto
volò via.

Mosca

La mosca ronza
sulla parola mosca
la stuzzica per farla
volare dalla carta
la mosca ignora
che quell’altra mosca
– bisillabo inchiostro sulla carta –
non è più sua compagna
ma nostra.

Cammino

Tu che mi scorri accanto

come un’acqua fedele nel cammino

di volta in volta raddrizzi paesaggi

storte visioni

alle cose imponi

una dolce chiarezza

e l’enigma è sciolto

tutto in un filo

il cammino allungato.

Queste cose terrestri

Queste cose terrestri
che scoppiano tra i piedi come rose
le raccatti ammirato le porti
ai più alti ripiani
e perdi il lume degli occhi
non vedi
le altissime cose
cadute in frantumi.

A mia figlia in partenza

Non è nemmeno un anno

che frigni e sorridi a questo mondo

apertosi per te

inesplicabilmente colorato.

Oggi in partenza da Villa San Giovanni

in braccio a tua madre dietro

un vetro del diretto per Milano

fai ciao con la manina al mondo

(che qui è lo Stretto di Messina

uomini pensiline

un’aria estiva, immondi

rifiuti ferroviari)

saluti forse anche me

al seguito del mondo

ora che il mondo vive

o fa finta di vivere per te.

La grazia

Sarebbe dunque in questo lividore
d’aria la grazia
che fa cadere a fiocchi
gelo candore oblio?
e dove metteresti l’altra grazia
che c’imbratta la faccia
di fiamme e fumo
che ci rammenta d’essere
schiatta di legna da ardere al buon Dio.

(Cimbro, 4 dicembre 1978)

Geografo

Non ho altro da dirvi

ho detto tutto

quel che dovevo su mari monti selve

tribù amiche-nemiche

non ho altro da dirvi

per mentirvi

tutto ho stravolto mutato adattato

a un diverso disegno

ho parlato di me

ho confessato andando

dal massiccio montuoso all'alga all'erba

spinto dalla bisogna

ad una verità vestita di menzogna.

(Mollerino, 18 dicembre 1978)

Notte di Natale. Insonni sognatori

Dio decide di entrare nella storia degli uomini nel modo più comune e naturale: nascendo bambino fragile e indifeso, restando avvolto solo nelle misere fasce che la giovanissima madre ha potuto racimolare, venendo adagiato in una semplice mangiatoia. A Betlemme, nella “casa del pane”. In una sorta di magazzino o dispensa per il cibo (anche se di solito κατάλυμα viene tradotto come “alloggio” o “stanza”). Nasce dunque come cibo per gli uomini. D’altronde già il profeta Isaia aveva annunciato che avremmo gioito “come si gioisce quando si miete”, cioè quando si raccoglie il grano per farne pane. E questo neonato è proprio il “pane di vita”, venuto a “dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc. 10,45). Il Re dell’universo si è fatto “carne” (σάρξ), cioè povertà assoluta, debolezza, tenerezza di creatura; ha rifiutato lo sfarzo e la ricchezza dei potenti per rivelarsi ai piccoli (Mt. 11,25), “si è fatto portatore di carne perché l’uomo possa divenire portatore di Spirito” (come dice Atanasio di Alessandria). Ha scelto la fragilità degli uomini perché è lì che vuole abitare, per incontrare chi lo accetta senza dettare condizioni, come fanno i pastori, uomini dalla pessima reputazione presso i benpensanti, o i Magi, giunti da chissà dove seguendo le loro stravaganti illusioni.

In questa notte la grande storia (il decreto di Cesare Augusto, il governo di Quirinio) resta sullo sfondo: è meno importante della piccola storia di un bambino che nasce in povertà e solitudine, nella quotidianità più disarmante, privo di tutto, tenero e inerme. Dio lascia così la sua onnipotenza e viene a piantare la tenda in mezzo agli uomini, nel punto più distante da casa sua, nello spazio feroce di quelli che tradiscono, violentano, uccidono.

Natale è una storia di sconfinamenti: Dio che lascia l’infinito per confinarsi “nell'ultima delle città principali di Giuda” (Mt. 2,6), ai confini del grande impero; Dio che si fa bambino nello sconfinato tremore di una madre e di un padre esuli e respinti; Dio che nasce per amore degli uomini, sapendo che essi lo metteranno al confine del proprio amore, conducendolo al disonore della croce; Dio che è accolto solo da chi è ai confini del giudizio umano, come i pastori, o viene dai confini del mondo, come i Magi.

È una scelta inattesa, folle, assurda. Nasce un Dio bambino che non può risolvere i nostri problemi, ma anzi ne creerà di nuovi con la sua inconsueta predicazione. Nasce da una fanciulla che ha accettato di cambiare i propri progetti per accogliere quelli di Dio. Nasce nel silenzio di una notte che si fa improvvisamente luminosa. Nasce per sconvolgere le certezze: per “portare ai poveri il lieto annunzio" (Lc. 4,18), per colmare di beni gli affamati e rimandare a mani vuote i ricchi (Lc. 1,53). Anche oggi Dio nasce in un mondo che non lo cerca e non lo attende: in un mondo che non ha pace né equità né giustizia. Nasce per richiamarci a non contare sulle nostre forze, ma a fidarci di Lui, anche se questo sembra assurdo. Nasce per cancellare il “grande timore” e darci al suo posto “una grande gioia” (Lc. 2,9-10). A patto che siamo disposti a farci insonni e disponibili come i pastori, impazienti e sognatori come i Magi.

Razionale e insieme passionale, anticonformista e piccolo-borghese, decadente e al tempo stesso realista, Pasolini ha sempre vissuto nel segno della contraddizione, senza mai venir meno ai suoi ideali, proponendosi spesso con la sua «disperata vitalità» come coscienza critica di una società che ha mostrato di non saperlo accettare né capire fino in fondo. Incomprensione e rifiuto di cui in qualche modo la sua morte (1975) è tragica metafora.

Pier Paolo Pasolini

Il suo esordio avviene a vent’anni, nel 1942, con la pubblicazione a Bologna, dove era nato nel 1922 e allora viveva, delle Poesie a Casarsa, quattordici componimenti in dialetto casarsese che mostrano già una maturità e una pienezza espressiva straordinarie, all’altezza della grande poesia in dialetto otto/novecentesca dei Tessa - Delio Tessa  (1886-1939) poeta dialettale milanese -, dei Giotti - Virgilio Giotti  (1885-1957) poeta dialettale triestino -, dei Firpo – Edoardo Firpo (1889-1957) poeta dialettale genovese -. Casarsa è il paese della madre, e Pasolini sceglie il suo dialetto perché lo considera una lingua vergine in grado di evitare il degrado che quella italiana stava subendo, una lingua capace di esprimere sentimenti assoluti, di celebrare realtà e valori ormai persi nella «società dei consumi».

I paesaggi friulani che fanno da sfondo ai testi sono pertanto imbevuti di disperata nostalgia per un mondo arcaico fatalmente destinato a dissolversi, per l’innocenza primigenia che la modernità non salvaguarda. Nel 1954 queste poesie entreranno a far parte di una nuova silloge in friulano, intitolata La meglio gioventù, ripresa vent’anni dopo nella raccolta La nuova gioventù (1974), dove negli ultimi componimenti al friulano si sostituisce l’italiano.

D’altronde sempre negli anni quaranta Pasolini aveva iniziato a comporre testi in lingua, che verranno però raccolti soltanto nel 1958 nella silloge L’usignolo della Chiesa Cattolica: qui al tema del rimpianto per la fine del mondo contadino il poeta accosta le prime rivelazioni sulle proprie scelte sessuali e sul travaglio che lo porta dal cristianesimo al marxismo. Questa scelta di campo risulta ancora più evidente nel volume Le ceneri di Gramsci (1957) che comprende undici poemetti, per lo più in terzine, dove è protagonista il sottoproletariato romano (che avrà ancor più rilievo nei romanzi Ragazzi di vita (1955), Una vita violenta (1959) e nei film coevi Accattone (1961), Mamma Roma (1962), La ricotta (1963).

La produzione poetica prosegue con La religione del mio tempo (1961) e Poesia in forma di rosa (1964), dove con crescente asprezza Pasolini condanna l’ipocrisia e i falsi valori del mondo borghese, cui fu sempre ostile, ma da cui fu anche affascinato e inesorabilmente attratto.

L’ultima raccolta è Trasumanar e organizzar, edita nel 1971, che segna il definitivo rifiuto di ogni convenzione letteraria, nella convinzione che non vi sia ormai più posto per un pensiero che voglia «spiegare il mondo», perché la realtà può solo essere vissuta e mai interpretata razionalmente.

Tornant al paìs

Fantassuta, se i fatu

sblanciada dongia il fòuc,

coma una plantuta

svampida tal tramònt,

"Jo i impiji vecius stecs

e il fun al svuala scur

disínt che tal me mond

il vivi al è sigúr".

Ma a chel fòuc ch'al nulís

a mi mancia il rispír,

e i vorès essi il vint

ch'al mòur tal país.

 

TORNANDO AL PAESE

Giovinetta, cosa fai / sbiancata presso il fuoco, / come una pianticina / che sfuma nel tramonto? / "Io accendo vecchi sterpi, / e il fumo vola oscuro, / a dire che nel mio mondo / il vivere è sicuro". / Ma a quel fuoco che profuma / mi manca il respiro, / e vorrei essere il vento / che muore nel paese.

La crocifissione

«Ma noi predichiamo Cristo crocifisso:
scandalo pe’ Giudei, stoltezza pe’ Gentili.»
Paolo, Lettera ai Corinti

Tutte le piaghe sono al sole
ed Egli muore sotto gli occhi
di tutti: perfino la madre
sotto il petto, il ventre, i ginocchi,
guarda il Suo corpo patire.
L’alba e il vespro Gli fanno luce
sulle braccia aperte e l’Aprile
intenerisce il Suo esibire
la morte a sguardi che Lo bruciano.

Perché Cristo fu ESPOSTO in Croce?
Oh scossa del cuore al nudo
corpo del giovinetto... atroce
offesa al suo pudore crudo...
Il sole e gli sguardi! La voce
estrema chiese a Dio perdono
con un singhiozzo di vergogna
rossa nel cielo senza suono,
tra pupille fresche e annoiate
di Lui: morte, sesso e gogna.

Bisogna esporsi (questo insegna
il povero Cristo inchiodato?),
la chiarezza del cuore è degna
di ogni scherno, di ogni peccato
di ogni più nuda passione...
(questo vuol dire il Crocifisso?
sacrificare ogni giorno il dono
rinunciare ogni giorno al perdono
sporgersi ingenui sull’abisso).
Noi staremo offerti sulla croce,
alla gogna, tra le pupille
limpide di gioia feroce,
scoprendo all’ironia le stille
del sangue dal petto ai ginocchi,
miti, ridicoli, tremando
d’intelletto e passione nel gioco
del cuore arso dal suo fuoco,
per testimoniare lo scandalo.

Comizio

[… ] E in questo triste sguardo d'intesa,
per la prima volta, dall'inverno

in cui la sua ventura fu appresa,
e mai creduta, mio fratello mi sorride,
mi è vicino. Ha dolorosa accesa,

nel sorriso, la luce con cui vide,
oscuro partigiano, non ventenne
ancora, come era da decidere

con vera dignità, con furia indenne
d'odio, la nuova storia: e un'ombra,
in quei poveri occhi, umiliante e solenne...

Egli chiede pietà, con quel suo modesto,
tremendo sguardo, non per il suo destino,
ma per il nostro... Ed è lui, il troppo onesto,

il troppo puro, che deve andare a capo chino?
Mendicare un po' di luce per questo
mondo rinato in un oscuro mattino?

Supplica a mia madre

È difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

 

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.

 

Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

 

Sei insostituibile. Per questo è dannata

alla solitudine la vita che mi hai data.

 

E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame

d'amore, dell'amore di corpi senza anima.

 

Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu

sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

 

ho passato l'infanzia schiavo di questo senso

alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

 

Era l'unico modo per sentire la vita,

l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.

 

Sopravviviamo: ed è la confusione

di una vita rinata fuori dalla ragione.

 

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Marilyn

 

Del mondo antico e del mondo futuro

era rimasta solo la bellezza, e tu,

povera sorellina minore,

quella che corre dietro i fratelli più grandi,

e ride e piange con loro, per imitarli,

 

tu sorellina più piccola,

quella bellezza l'avevi addosso umilmente,

e la tua anima di figlia di piccola gente,

non ha mai saputo di averla,

perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.

 

Il mondo te l'ha insegnata,

Cosi la tua bellezza divenne sua.

 

Del pauroso mondo antico e del pauroso mondo futuro

era rimasta sola la bellezza, e tu

te la sei portata dietro come un sorriso obbediente.

L'obbedienza richiede troppe lacrime inghiottite,

il darsi agli altri, troppi allegri sguardi

che chiedono la loro pietà! Cosi

ti sei portata via la tua bellezza.

Sparì come un pulviscolo d'oro.

 

Dello stupido mondo antico

e del feroce mondo futuro

era rimasta una bellezza che non si vergognava

di alludere ai piccoli seni di sorellina,

al piccolo ventre così facilmente nudo.

 

E per questo era bellezza, la stessa

che hanno le dolci ragazze del tuo mondo...

le figlie dei commercianti

vincitrici ai concorsi a Miami o a Londra.

Sparì come una colombella d'oro.

Il mondo te l'ha insegnata,

e cosi la tua bellezza non fu più bellezza.

 

Ma tu continuavi a essere bambina,

sciocca come l'antichità, crudele come il futuro,

e fra te e la tua bellezza posseduta dal Potere

si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente.

La portavi sempre dietro come un sorriso tra le lacrime,

impudica per passività, indecente per obbedienza.

Sparì  come una bianca colomba d'oro.

 

La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico,

richiesta dal mondo futuro, posseduta

dal mondo presente, divenne un male mortale.

 

Ora i fratelli maggiori, finalmente, si voltano,

smettono per un momento i loro maledetti giochi,

escono dalla loro inesorabile distrazione,

e si chiedono: «È possibile che Marilyn,

la piccola Marilyn, ci abbia indicato la strada?»

Ora sei tu,

quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso,

sei tu la prima oltre le porte del mondo

abbandonato al suo destino di morte.

Roberto Mussapi

«Il viaggio non esotico, cioè non evasivo, conduce al proprio centro, all'identità profonda, ed è l'orizzonte che rende possibile la scoperta di sé»: questa affermazione di Roberto Mussapi (Cuneo, 1952) raffigura compiutamente l’idea che egli ha di sé come di un “viaggiatore della parola”, sempre alla ricerca di luoghi da conoscere e far conoscere, fossero essi spazi reali del mondo o luoghi del mito classico, territori della grande tradizione anglosassone o affollate stazioni delle nostre città.

Ciò che caratterizza la sua opera poetica è proprio questa costante ricerca del senso del viaggio (cioè della verità), quel «genere di verità che perdiamo sempre di vista, quella che la poesia ricerca per lo più invano, quella stessa che forse la morte rivela, in modo evidente ma incomunicabile, perché giunta troppo tardi: e cioè che l’amore, il semplice amore tra persone, si rivela all’ultimo momento come la sola verità» (così acutamente Yves Bonnefoy, introducendo la recente raccolta delle Poesie di Mussapi, edita da Ponte alle Grazie).

Nel suo dettato, che potremmo definire epico per la capacità di improvvisi straniamenti, per l’eleganza architettonica e la raffinata sensibilità, Mussapi ci propone tematiche esistenziali rivisitate come nuovi miti, con uno stupore attonito che fa apparire attuali e nello stesso tempo inconsueti luoghi, persone, animali, i più svariati oggetti. È infatti sempre partendo dalla concretezza dell’esperienza che egli sa offrirci parabole esistenziali dense di valori simbolici, mediante una costante tensione magica che fa del quotidiano un’esperienza fuori dall’ordinario.

In questo senso uno dei testi più coinvolgenti e innovativi è il recente Frammenti dall'esistenza di Maria (Raffaelli, Rimini 2012), una raccolta di sette lunghi monologhi che presentano, attraverso la voce narrante dell’arcangelo Gabriele, i momenti cruciali della vita della Vergine: la nascita di Gesù, l’annuncio dell’angelo, il ritrovamento di Gesù tra i dottori nel tempio, il suo lavoro nella bottega di Giuseppe, l’arrivo delle Marie al sepolcro, l’Ascensione, l’Assunzione. Attraverso le stranianti considerazioni dell’arcangelo Gabriele, cui “sfugge il mistero ultimo dell’uomo”, il poeta indaga quelli che potremmo chiamare i retroscena, gli aspetti nascosti e quotidiani degli episodi in cui è coinvolta Maria: i suoi silenzi e le sue incomprensioni, i suoi presagi e le sue angosce, la sua gioia e la sua sofferenza, fino al momento culminante della sua salita al cielo, dove è accolta “regina nel suo regno di silenzio e ombra”. E Gabriele conclude con attonito stupore: “Io non immaginavo che una creatura umana / potesse superare la mia scienza / dicendo sempre sì, sempre, in silenzio”.

Dicembre

Deformate dai riflessi dei vetri

passano barche bianche abiti sciolti

vuoti del corpo, anime trasparenti

afflosciate sull’acqua, con voci acute

e soffi striduli di strega, cortecce

semiliquide di corpi scissi

precipitati immobili nel letto,

nelle stanze di nebbia dei pesci senza gola.

 

Scorrono le sembianze dei corpi sommersi, 

i veli bianchi che si gonfiano al soffio

dei cani molli della foce, fuggono

lacerate dai morsi di donne senza corpo,

 

cranii spaccati che galleggiano e sono puro suono

e addentano per proferire versi

e hanno occhi d’alga che s’aprono

ad assenze infinite, amori inesorabili

di chi parte sull’acqua.

 

Appannate dal ghiaccio delle cornee

fuggono terrazze sospese sull’acqua

strascichi di sembianze alate

tormentate da sguardi, da gridi di gabbiano

 

passano secoli millenni nel gelo di una palpebra

fuochi che riconosciamo specchiandoci 

nei vapori d’inverno, passi percorsi

e nuovamente nati prima del proprio corso.

 

Il pesce che devo amare i canti della 

palude che si levano a sera e sono

la mia perdita continua, il mio tributo

al pellicano, qui come un impiccato tra

la terra e il cielo aspetto di disperdere ancora

di espandermi alla voce che mi ha chiamato

la Principessa che ho diritto di amare

il vento che mi allontana e che mi stanca

quello che perdo, quello che mi scompare

 

passiamo come anime sgusciate dall’immagine

riflessa, chiamate da un suono denso e molle dove

la luna apre lo sguardo al nulla della luce spersa.

Perché rinascere a quest’ora

Perché rinascere a quest’ora,

perché accendersi ancora in questo vento?

Tutto riposa, adagio,

resta un nucleo disperso

roccia silicea e povera,

tempo forato dal tempo, anni

che abbiamo lambito ognuno perso

nel suo grido, perso a un accenno.

 

Entra nel buio, acquattati

prendi i miei occhi, le mani, il silenzio

ma soffri più di lui, donati

al buio, non dubitare della tua presenza.

Rimani ferma nel dolore, ferma

per sempre, lasciati solo guardare, muori

se vuoi, purché tu sia visibile, vivente.

E io mi accenderò, quando

lo chiedi, adesso.

La notte del dieci Agosto

Non piangere, Harun, in questa notte d'agosto

quando le stelle cadono e la loro luce si dissolve

nel buio come la sabbia nel sonno:

se fossero sempre fisse e immutabili ti sarebbero estranee,

e il loro splendore immobile offenderebbe la tua carne.

Immagina che scendano per una compassione celeste,

incarnazione d'astri che si disfanno in polvere,

molecole di luce che si compenetrano al buio,

ricorda la storia del beduino Habib che si innamorò di una lucciola

e visse ogni istante della sua luce guardandola,

e disperò vedendola morire in una notte.

Ma dopo anni di pianto nel gelo del deserto

una notte all'improvviso lui la rivide

risplendere alta in una stella fissa:

la lucciola, l'errante, la luce fenomenica,

tornava dal cielo al beduino analfabeta.

Né tu, sultano, né il povero beduino,

avete pianto per una stella o una lucciola,

ma per la sola cosa per cui piange un uomo,

una donna: lì fu il dolore di luce persa,

premonizione astrale del tempo spegnente,

l'estinzione già inclusa nella ferita del miracolo,

e la distanza dal cielo, la morte.

Impara dal beduino, amala come si ama una lucciola,

donati a ogni suo istante di sopravvivenza,

e quando lei ti parrà persa nella notte

tu nei suoi occhi scoprirai di colpo

la luce alta delle stelle fisse,

e in lei che parve dissolversi in una notte di agosto

l'affinità mortale con te che la supplichi.

A Mario Luzi, nel giorno della sua morte

So che non è istantaneo il distacco,

né breve il sospiro di commiato

là nella troposfera vuota dove s’incontrano

il fiato del morituro e il soffio del trapassante,

lo so perché lo appercepii vivendo

e lo avevo già inciso in me prima di vivere.

E che anche la tua voce non si è spenta all’istante

ma in un tempo di ere da lunedì a mezzogiorno

per qualche ora tremolava nell’aria,

già sfarinata, come da bambino

sentivo la neve scendere, a Natale.

 

E non è breve la sua scomparsa, s’apprende

a soffi e claudicanti respiri interni

lì tra l’orecchio e la gola, dove ascolti

e dove ebbero origine la voce e il gemito,

e l’alba della vita melmosa e orante.

 

So che non è incorporea, la memoria,

lo so, tu me l’hai fatto vero, appena morto

ma che incorpora il morto nel corpo vivente,

come quando si spezza un vetro o esplode un singhiozzo

e dalle schegge e lacrime il bacio tra aorta e mondo.

Senti qualcosa spezzarsi, tra le fronde,

ma l’ombra ti consola, prima che finisca il giorno.

Nell’albero si strazia la mia carne

e mentre il ramo si spezza la linfa ascende,

e ora, ora, Mario, la parola s’informa,

disintegrata e infissa alla sua cellula…

 

È duro Amore staccarsi da Amore, ma all’unisono

si scerpa e si glorifica la carne.

La nascita

Faceva troppo freddo quella notte,

la folla in viaggio, sparsa, si era ritirata negli alberghi

prima del tramonto, per proteggersi dalla brina nascente

che scintillava sulla sabbia come nevischio.

Mentre il buio scendeva la morsa li strinse,

non avevano trovato alloggio, lei vacillava

sul dorso dell’asino, ma sorrideva a Giuseppe

a cui negli occhi cresceva l’angoscia della notte

con il suo gelo già dal tramonto bruciante.

Fu lei, con la mano destra, che indicò la grotta,

un anfratto poco distante, interrato.

Si intravedeva un’apertura, la raggiunsero.

Impossibile – disse lui – È troppo fredda.”

Ci è stata data, sulla strada” rispose la donna

e sorrideva, già nelle doglie.

Adagiami qui, ora accade.”

Poi tutto fu buio a me quello che avvenne dentro,

la conoscenza astrale e la carne divina

di cui siamo tessuti fibra per fibra

ha zone di buio, isole d’ombra:

il vuoto della caverna, il cuore della roccia…

A noi nutriti di luce siderea

sfugge il mistero ultimo dell’uomo,

che solo lui conosceva, lui nascente,

lo splendore del buio.

Ma io sentivo il respiro nella grotta,

là fuori, sulla soglia, in alto, a fare da scolta

ero nutrito da un respiro profondo

che gonfiava la terra di luce e vento

e rianimava le zolle salendo dagli inferi,

arando per la semina celeste.

 

Allora quando sentii la sua voce,

simile a un sorriso se il sorriso l’avesse,

confusa col belato di un agnello,

una voce radiante di regina,

sì, di regina nello stesso tempo,

allora fui libero di annunciare al mondo

che in quell’anfratto a bacino nella grotta

simile a una mangiatoia di pietra era nato

il cibo sognato per tutti i viventi

e i morti e i nascituri congiunti per sempre.

Nel mio fiato angelico, nell’abbagliante

luce che sprigionava dalle mie fibre e dagli occhi,

io li vedevo avvicinarsi, timidi,

poi sempre in numero e intensità crescenti,

in un buio che era divenuto di cobalto

sul pavimento di brina che splendeva sotto le stelle,

e mentre di fronte a lei e al bambino scaldati dall’asino

si buttavano in ginocchio per terra

io ora vedevo alle mie spalle, vedevo nel buio della grotta

sfericamente baciante la mia sfera celeste,

e non cessavo più di gridare e splendere

preso da un’euforia che non conoscevo dall’attimo

in cui ero venuto alla luce e all’universo.

Se fossi stato umano, avrei pianto.

Il ramo verde

Mario Pomilio, Il quinto evangelio

«Si dice che all'interno dei quattro vangeli noti è come se ce ne fosse uno ancora sconosciuto. Ma ogni volta che la fede accenna a rifiorire, è segno che qualcuno ha intravisto quel Vangelo»: sono parole forti, quasi irriverenti, quelle che Mario Pomilio (1921-1990) ci rivolge nel suo romanzo più noto, Il quinto evangelio, edito nel febbraio 1975. L’opera suscitò immediatamente discussioni, apprezzamenti e dissensi, ma costituì, soprattutto per i giovani di allora, uno straordinario portolano, fonte di riflessioni profonde, di ripensamenti e riletture, di scelte coraggiose e anticonformiste.

Il romanzo ebbe inizialmente un successo straordinario di critica e di pubblico, tanto che in sei anni se ne realizzarono ben diciotto ristampe, anche se presto dovette subire la sorte di tutti i best-seller: ma se a tutt’oggi non è dimenticato, ciò è dovuto da un lato alla straordinaria forza di novità che ancora dimostra, dall’altro lato alla meritoria scelta della casa editrice L’Orma, che un anno fa ne ha proposto un’edizione rinnovata e accresciuta da una interessante Appendice (Tre scritti di Mario Pomilio), un’accurata Nota ai testi, una meticolosa Nota archivistica di Wanda Santini (che rivela Come lavorava Mario Pomilio) e un corposo saggio di Gabriele Frasca intitolato La verità, la ricerca e la consegna.

Un’appassionata ricerca

La vicenda del Quinto evangelio prende avvio dalle indagini dell’irrequieto protagonista, il giovane ufficiale statunitense Peter Bergin, «quasi agnostico in fatto di religione, e formatosi oltre tutto in area non cattolica» (come egli stesso si definisce nella lettera che apre il romanzo), inviato nel 1945 in una Germania ormai prossima alla disfatta in virtù della sua ottima conoscenza del tedesco. Egli alloggia per parecchi mesi nella canonica di una chiesa bombardata di Colonia, dove ha modo di interessarsi ai libri e soprattutto ai numerosissimi appunti del sacerdote che in quel luogo aveva lungamente abitato: e ben presto si appassiona alla ricerca che lo sconosciuto aveva iniziato di un fantomatico “quinto vangelo”. Diventa così «pellegrino di sogni» e, una volta tornato in America al suo incarico di ricercatore e poi docente universitario, si trova suo malgrado a orientare l’intera sua vita (e in seguito anche quella dei suoi allievi-discepoli) sulle tracce di questo introvabile vangelo, «il libro nascosto il quale soggiace alle Scritture già note e in perpetuo ne modifica e ne amplifica il senso».

La lettera che apre il romanzo è indirizzata al segretario della Pontificia Commissione Biblica, cui il vecchio Bergin, ormai vicino alla morte, vorrebbe affidare la prosecuzione della sua estenuante e infruttuosa ricerca; ma l’ultima lettera inviata al prelato dalla segretaria del professore lascia intendere che tale attesa è mal riposta. Dopo la morte del professore, i suoi discepoli scoprono tra le sue carte un dramma nel quale egli rivive i mille interrogativi suscitatigli dal miraggio del vangelo sconosciuto: è Il quinto evangelista, il testo teatrale che fa da suggello all’opera.

Scrive Pomilio nel colophon: «Occorre appena, credo, avvertire che questa è un'opera d'invenzione e che le stesse fonti che si menzionano o sono immaginarie (e la più parte sono tali), o sono adottate con la massima libertà. Un caso a parte è però rappresentato dalla "Storia di fra Michele minorita”, un effettivo rifacimento (camuffato, come s'è visto, dietro un altro rifacimento) dell'omonima narrazione scoperta e pubblicata per l'appunto nel 1864. Quanto alla "Giustificazione", il lettore avrà già intravisto in controluce qualche prestito dall'autobiografia di Giannone e dalle memorie di Da Ponte». Nonostante questa indicazione dell’autore, che vorrebbe sottolineare il carattere romanzesco dell’intera vicenda, bisogna dire che i riferimenti e le citazioni del fantomatico quinto vangelo non sono pura invenzione: in gran parte essi derivano dalle cospicue letture che Pomilio andava facendo negli anni sessanta, quando aveva cominciato a pensare all’opera. Erano infatti apparsi nel 1969 da Einaudi I Vangeli apocrifi a cura di Marcello Craveri e qualche anno prima una nuova traduzione dei quattro Vangeli curata da grandi scrittori come Lisi, Alvaro, Valeri e Bontempelli, di cui lo scrittore dice: «la lettura m’aveva portato a riflettere su molte cose insieme: sul potere, ad esempio, che ha una traduzione ben fatta di riavvicinarci a un testo e renderlo nuovo e nostro; su come, nel caso specifico [...] tale effetto risultasse misteriosamente raddoppiato; sull’errore che invece s’era commesso in area cattolica, rendendo canonica la Vulgata e scoraggiando così a lungo la diffusione dei Vangeli in lingua fresca, in lingua viva [...]. L’ idea del quinto Vangelo, del Libro dei Libri o dell’Apocrifo degli Apocrifi [...] germinò sicuramente da tutte queste cose insieme, in una certa febbrile mattina dell’agosto 1969».

E ancora non si dimentichi che negli anni sessanta erano finalmente disponibili anche ai non addetti ai lavori i testi gnostici scoperti nel 1945 a Nag-Hammâdi, in Alto Egitto, tra cui il Vangelo di Tommaso e il Vangelo di Filippo, che molto incuriosirono Pomilio; e venivano studiati e divulgati i manoscritti del Mar Morto, trovati fortuitamente nel 1947 nelle grotte di Qumran. Per questo Pomilio può affermare, riferendosi al Quinto evangelio: «ho inventato degli ipotetici documenti che avrebbero dovuto rassomigliare ai possibili documenti delle epoche alle quali mi riferisco [...]; anche se i personaggi sono diversi, il messaggio e l'esigenza rimbalzano dall'uno all'altro e la continuità del libro è stabilita dal fatto che queste persone sono tutte quante dentro una situazione che le raccoglie e le unifica». In sostanza il metodo con il quale Pomilio lavora consiste nel mettere sistematicamente a confronto testi apocrifi (o comunque extra-canonici), testi neotestamentari in rinnovate traduzioni, frammenti di pura invenzione, rifacimenti e interpolazioni di documenti d’ogni genere, generando in tal modo sequenze che mantengono una fondamentale omogeneità di tono rispetto al patrimonio canonico. Ecco dunque che il quinto evangelio, «il Testo immaginato, rincorso e presupposto dalla narrazione romanzesca appare – a chi legga consecutivamente le 153 tessere superstiti – come un’imponente inedita raccolta di detti di Gesù, situati come gli agrapha in posizione eccentrica ma non incompatibile rispetto a quelli conservati dai vangeli canonici» (W. Santini).

Opera polifonica, che assume via via le caratteristiche del romanzo e dell'epistolario, della narrazione e dell’autobiografia, dell'antologia e dell'opera teatrale, del saggio storico-biografico e dell'indagine filosofico-religiosa, del diario e della leggenda, dei verbali di interrogatorio e delle memorie private, questo testo «così fuori di ogni regola, così poco allettante, duro, impegnativo […] è tutto un libro di fantasia, e sembrerebbe tutto preordinato, mentre è nato per caso, secondo una specie di vagabondaggio spirituale, di curiosità nata via via, di continue svolte e imprevisti», come più tardi scrisse Pomilio stesso ad un’amica.

Il quinto vangelo oggi

L’attualità dell’opera è riconosciuta dallo stesso autore, che in un’intervista del 1978 affermava: «Dietro le parvenze storiche del mio romanzo c’era tutto un tessuto di rapporti all’attualità, c’era il brulicare dei fermenti del presente; addirittura, dietro i lineamenti di qualche mio personaggio, si sarebbero potuti riconoscere i tratti morali di certi personaggi d’oggi. A parte il fatto che l’esperienza fatta tra le pieghe delle storia del cristianesimo m’aveva convinto che quello che la Chiesa sta attraversando non è affatto, per essa, uno stato eccezionale. In forma più latente, e per i tempi più lunghi, il suo passato è pieno, a ogni svolta, starei per dire, dei problemi che oggi vediamo affiorare tutti insieme. Per dirla in breve, in virtù del mio “mito” m’accorgevo di star scrivendo un romanzo di piena attualità, col vantaggio di sfuggire ai rischi dell’impatto cronachistico, che ne avrebbero fatto un’opera meccanica, meramente esterna, di polemica scoperta. In definitiva, un libello-mito, se non altro, restaurava il mistero. E dietro le quinte (perché non dirlo?) non c’ero forse io, che utilizzavo una metafora per rispecchiare le mie attese e i miei dilemmi di cristiano passato anch’esso attraverso il fuoco del Concilio?»

Proprio questo riferimento al Concilio Vaticano II ci fa percepire con chiarezza l’attualità del messaggio che il romanzo ci trasmette: anche a noi oggi è chiesto di trovare un nuovo vangelo, non però rintracciando in qualche dimenticata biblioteca un libro ignoto, ma testimoniando con la nostra vita l’attualità delle parole del Cristo che ogni cristiano deve rendere sempre nuove e attuali. È questo il quinto vangelo che può rinnovare il mondo, come si augurava Giovanni XXIII lanciando la sfida del Concilio. Ed oggi, quando tra i cristiani (e non solo tra loro) sembra essersi aperto un sotterraneo ma bruciante confronto/scontro tra sostenitori e detrattori di papa Francesco e delle sue straordinarie aperture, appaiono veramente profetiche le contestazioni di Pomilio nei riguardi di una Chiesa mummificata nei dogmi, di un clero mondanizzato e indifferente all'ingiustizia dilagante. Non è un caso che le vicende che meglio caratterizzano il romanzo siano affreschi di grandi contestatori colti dal vivo nella loro reale vicenda o ricostruiti sul filo di voci leggendarie: il monaco greco, frate Eligio, fra Michele, Pietro da Narbona, Giosue Borgogno, il cavalier Du Breuil, Domenico De Lellis. Ed è proprio attorno a queste figure che Pomilio è riuscito a darci le sue pagine migliori, quelle ancor oggi più vive e attuali.

E perfino il titolo, apparso allora a taluno d’una spregiudicatezza degna degli strali del Sant’Uffizio, deve far riflettere i cristiani d’oggi sulla necessità di rinnovare, attualizzare e concretizzare il messaggio evangelico, perché esso non resti lettera morta o non diventi addirittura causa di “una condanna maggiore” (Lc. 20,47): il quinto vangelo va scritto da ogni uomo di fede con la sua intera vita. Come scrive Pomilio attribuendo il testo agli Itineraria di Eucherio da Lione: «il quinto vangelo è come un libro che il Signore ha lasciato aperto. Lo scriviamo tutti noi con le opere che compiamo, e ciascuna generazione v’aggiunge una parola».

Angelo Visigalli

Scriveva recentemente Gian Piero Bona, scrittore e traduttore piemontese ormai quasi novantenne, che la poesia “è vivere verticalmente ciò che gli altri di solito subiscono orizzontalmente”: di Angelo Visigalli si potrebbe proprio dire che ha sempre voluto vivere “verticalmente” sia la sua preziosa missione di insegnante, sia il suo lavoro, discreto e pensoso, di poeta. Egli riserva infatti alla poesia “una docile accoglienza”, la fa depositare nelle sue giornate “come viandante ed ospite / inattesa”, la riceve con disponibilità e gratitudine, per offrirla poi solo a quei lettori disposti a lasciarle spazio nella propria vita.

Visigalli è un poeta che sa essere lieve ed essenziale senza mai scadere nel sentimentalismo o nell’ovvietà: la sua poesia (che egli definisce “non letteraria” perché non fa riferimento a scuole, linguaggi o modelli particolari) ci è offerta come un invito alla riflessione e alla meditazione. D’altronde anche nella sua attività di docente ha voluto educare i giovani a quest’arte, facendosi promotore di numerose iniziative coinvolgenti e talora inconsuete in occasione delle “Giornate mondiali della poesia”, ogni anno il 21 marzo.

In particolare nei testi degli ultimi decenni vediamo il dettato sbriciolarsi in versi brevi ed icastici, come una musica sospesa e incantata, che si chiude però spesso con sentenze feroci, come “tentacoli urticanti / di meduse”. Questo vale per le poesie che potremmo definire d’amore, dove il poeta sa far risuonare i sentimenti più vari, dalla tenerezza alla trepidazione, dal timore al desiderio, dall’esitazione alla gioia, in una tessitura che non diventa mai puro descrittivismo, ma rilettura dei fatti e delle persone in chiave personale ed intima. Questo vale soprattutto in quelle che potremmo definire “poesie d’occasione”, perché nate da un incontro, una visione, un momento della stagione o del giorno, un oggetto visto sotto una luce nuova e così via: Visigalli sa offrirci queste realtà quotidiane (fiori, paesaggi, giardini incantati, animali più o meno comuni, ma anche accadimenti linguistici o comunicativi), tratteggiandoli con mano delicata nella loro recondita essenza, quasi a dirci che la loro vera ragion d’essere può essere colta solo da chi sa osservare con pazienza ed affetto, andando oltre la realtà tangibile, oltre l’apparenza, fino a giungere al nucleo pulsante della vita.


Rileggendo lOrlando Furioso

Cinquecento anni fa, il 22 aprile 1516, in un’oscura officina tipografica ferrarese, con una tiratura di un migliaio di esemplari usciva la prima edizione dell’Orlando Furioso: il successo immediato convinse Ariosto a una parziale riscrittura che portò alla seconda edizione del 1521, e poi a un rifacimento molto più radicale, che sfociò nell’edizione definitiva del 1532. Il passaggio dalla prima alla terza stampa implicò ovviamente grandissimi mutamenti di progetto sul piano letterario, linguistico e ideologico, in considerazione anche dei forti e veloci cambiamenti che segnarono la letteratura e la storia in quel pur breve lasso di tempo, durante il quale si determinò un nuovo ordine mondiale, si trasformarono generi e forme, e sulla scorta della proposta di Pietro Bembo esposta nelle sue Prose della volgar lingua (1525) si affermò il toscano letterario come nuova lingua nazionale. Ariosto seppe tener conto di tutto questo e s’adeguò ai rapidissimi mutamenti che si svolgevano sotto i suoi occhi, adattando via via il poema ai nuovi valori e stili di vita; anche se, come sottolinea Segre, si può essere d’accordo sulla bellezza di molte aggiunte del 1532, sulla perfezione dei ritocchi di stile e di struttura; ma nel primo Furioso c’è una libertà, una gioia di esprimersi, una felicità che il totale impegno formale forse sacrificò in parte.

Il bosco uno spazio interiore

Ma lasciando da parte ogni intento comparatistico, addentriamoci nel libro e osserviamo lo scenario che fa da sfondo alle intricate vicende che vi sono narrate: immaginate un bosco, un immenso bosco che copre tutta l’Europa (come realmente era qualche secolo fa) e in questo bosco immaginate dame e cavalieri, paladini e servi, cristiani e mori, uomini e cavalli che si incontrano, si scontrano, si battono, s’inseguono, si perdono e si trovano, si cercano e si sfuggono, si conoscono o s’illudono di conoscersi. Questo è anzitutto l’Orlando furioso: un poema vasto quanto un bosco medievale, ricco di alberi, cespugli, fiori, animali di ogni genere; un bosco come ne esistevano allora, così smisurato che veramente sarebbe stato possibile attraversare l’Europa senza scendere dagli alberi, come (in un certo senso) fa Cosimo Piovasco di Rondò, il Barone rampante di Italo Calvino.

Una foresta (con Bernard Berthet la si potrebbe definire una forêt précieuse per il suo ruolo fondamentale a vantaggio degli uomini medievali) nella quale si svolge la maggior parte delle vicende del poema, in «profonde / selve» (XII, 7) che si aprono però improvvisamente in radure luminose e fiorite, o vengono solcate da acque limpide di fiumi e torrenti (dalle quali però può uscire il fantasma di un guerriero ucciso e vilipeso), e infine si arrampicano sui balzi dei Pirenei percorsi a volo dall’ippogrifo, e si moltiplicano a specchio nelle valli e nelle montagne della Luna su cui approda Astolfo.

In ogni bosco, però, vi sono anche spiazzi e radure, come quella che si presenta agli occhi di Ruggiero in cerca di Bradamante, «un gran prato; e quello / avea nel mezzo un grande e ricco ostello» (XII, 7): si tratta del secondo edificio costruito dal mago Atlante (dopo il castello tutto d’acciaio nei Pirenei), un palazzo più che mai metaforico e simbolico perché rappresenta il luogo nel quale si concentrano tutti i desideri umani. Un palazzo in cui «a tutti par che quella cosa sia / che più ciascun per sé brama e desia» (XII, 20). E, come è giusto, anch’esso infine si scioglie «in fumo e in nebbia» (XXII, 23), perché il desiderio umano è insaziabile e inappagabile, per definizione: come commenta con finezza Calvino, cessa d’essere uno spazio esterno a noi, con porte e scale e mura, per ritornare a celarsi nelle nostre menti, nel labirinto dei pensieri.

Una ricerca lunga tutta la vita

Nel palazzo incantato erano finiti, per volere del mago Atlante, tutti i migliori cavalieri cristiani e mori, persi in una vana ricerca di ciò che stava loro maggiormente a cuore. Ma in effetti ogni personaggio del poema è en quête, in cerca di qualcuno o di qualcosa: Orlando cerca Angelica, la quale cerca un uomo che non sia un eroe (e troverà un umile soldato ferito di cui innamorarsi); Bradamante cerca Ruggiero e lui cerca lei fino in fondo al poema, e Astolfo è mandato a cercare il senno di Orlando fin sulla Luna; Cloridano e Medoro cercano il cadavere del loro signore sul campo di battaglia, mentre Ferraù cerca il suo elmo caduto nel fiume e Rinaldo il suo cavallo Baiardo sfuggitogli con astuzia più umana che equina; Isabella cerca Zerbino e Zerbino cerca Isabella fino a che entrambi vengono uccisi senza pietà. In effetti la ricerca è quasi sempre destinata a fallire, lasciando uomini e donne ad aggirarsi in un bosco che somiglia sempre più a un labirinto: perché in un simile spazio le strade non sono certo quelle ortogonali di un castrum romano, bensì circonvoluzioni strane, intrecci e intrichi di sentieri che possono far tornare un personaggio sui suoi passi (come capita ad esempio a Ferraù: «Pel bosco Ferraù molto s'avvolse, / e ritrovossi al fine onde si tolse») o far incontrare a un guerriero senza macchia e senza paura i fantasmi del suo desiderio inappagabile (è quello che succede a Orlando, capitato per sbaglio nei luoghi dove è deflagrato l’amore tra Angelica e Medoro e per questo destinato a impazzire, diventando, appunto, “furioso”).

Ci siamo tutti

Un bosco, un labirinto, o anche un arazzo intessuto, su cui si stagliano di profilo figure bidimensionali ricamate con abilità, episodi che si intrecciano in una trama e un ordito magistralmente costruiti, in ottave d’oro disegnate con la lingua dei grandi maestri toscani.

O ancora potremmo paragonare il poema a un’immensa partita a scacchi, nella quale ogni pezzo ha la sua mossa, fissa e inderogabile: così Angelica è la donna seducente da tutti concupita, Olimpia la bella donna sventurata e sempre tradita, Bradamante la guerriera totalmente fedele al suo amore; Astolfo si ritrova sempre tra le mani oggetti magici, Rodomonte impazza con la sua forza mostruosa, incapace di fermarsi di fronte alla delicatezza della donna che ingannandolo si fa uccidere; Atlante è il mago intenerito che cerca vanamente di salvare Ruggiero dal suo destino crudele.

Bosco intricato, labirinto inestricabile, arazzo intessuto tortuosamente, partita a scacchi sull’immensa scacchiera del mondo, il «poema dell’armonia» è quindi anche nello stesso tempo il poema magmatico del disordine, la celebrazione dell’incostanza e della precarietà, la manifestazione degli abbagli e degli incanti in cui cade l’umanità. Come dice Calvino, «la giostra delle illusioni è il palazzo, è il poema, è tutto il mondo».

Ma il libro, portolano non solo della Terra, ma perfino della Luna su cui sale Astolfo, nasce per la volontà ariostesca di riorganizzare questo caos, di ricostruire un universo di ordinata misura, nella malinconica nostalgia di un mondo cavalleresco che già ai suoi tempi era tramontato, ma i cui ideali secondo lui non potevano e non dovevano essere stravolti. E allora al protagonista Orlando (l’unico pezzo della scacchiera che non ha un ruolo fisso, ma deve impazzire prima di ritornare il guerriero saggio e gagliardo che evita la disfatta dei suoi) è concesso fin dal titolo di affrontare (e superare) la pazzia senza evitarla né demonizzarla, perché Orlando impazzito per amore è in ogni caso alter ego di Ariosto, come appare fin dalla seconda ottava del primo canto in cui ironicamente l’autore dichiara che potrà scrivere il poema solo se gli sarà permesso ancora di lavorare «da colei che tal (cioè “pazzo”) quasi m’ha fatto / che ‘l poco ingegno ad ora ad or mi lima…».

Sogni, speranze, paure

Diceva Italo Calvino che quest’opera contiene tutto il mondo e che in questo mondo è inscritto a sua volta un libro che vuol essere il mondo. Non per niente la metafora più calzante per definire l’Orlando furioso la troviamo nell’episodio del duello tra la guerriera Bradamante e il mago Atlante, il quale «da la sinistra sol lo scudo avea, / tutto coperto di seta vermiglia; / ne la man destra un libro, onde facea / nascer, leggendo, l'alta maraviglia: / che la lancia talor correr parea, / e fatto avea a più d'un batter le ciglia; / talor parea ferir con mazza o stocco, / e lontano era, e non avea alcun tocco” (IV, 17).

Dunque un libro magico (come ogni vero libro), che sa far nascere «l’alta meraviglia»; un libro denso di illusione e trasfigurazione onirica della realtà; ma anche un libro tutto concretezza e corporeità, perché Ariosto sa costruire con abilità e finezza paragoni arditi tra le vicende clamorose degli eroi e le umili faccende della vita quotidiana. Così per descrivere l’agguato di Cimosco a Orlando parla dei pescatori che nel delta del Po circondano le anguille con le reti, e quando Orlando trafigge i nemici con la sua lancia fa riferimento ai cuochi che infilzano tortellini sul forchettone e ai pescatori che infilzano le rane sullo spiedo.

Un essere straordinario come l’ippogrifo schiva i morsi dell’Orca come una mosca evita il morso del mastino, e a sua volta l’Orca tramortita dallo scudo magico di Ruggiero sembra una trota stordita con la calce; e quando tocca ad Orlando affrontare il mostro marino, la sua tecnica di battaglia ricorda il lavoro dei minatori che puntellano le gallerie dove scavano, mentre l’Orca è ridotta al rango di un toro preso al laccio; Orlando e Mandricardo combattono furiosamente, ma sembrano «duo villan per sdegno fieri» che litigano per un confine di campo o per un diritto d’irrigazione.

Mai più la «machina infernal»

È anche questa «quotidianità sospesa», questo intreccio inscindibile di aulicità e ordinarietà che contribuisce all’armonia dell’opera, un po’ come nei Promessi sposi l’alternanza di personaggi storici e personaggi inventati, di signori e plebei, di grandi scenari e di umili vicende di popolani. E se un solo capitolo, spremendo «il sugo della storia», giunge a compiere con lieto fine il testo manzoniano, ad Ariosto servono molti canti (compresi i sei aggiunti nella terza edizione) per concludere le intricate vicende del poema, fatto in realtà di tre poemi intrecciati e aperti alla libera circolazione dei personaggi: il poema brettone dell’amor cortese si conclude allora con i matrimoni felici e con il buffo ruzzolone di Angelica in fuga verso l’Africa con l’amato Medoro; il poema carolingio della guerra santa si conclude con la morte di Rodomonte e la sconfitta dei saraceni; il poema postmoderno del conflitto tra amore coniugale e libertà si conclude con la rappacificazione di Ruggero e Bradamante e la nascita della stirpe estense (se volete, parliamo pure di tema encomiastico).

«Ultimo dei romanzi cavallereschi e primo dei romanzi moderni», come giustamente lo definisce Chiara Fenoglio in un recente articolo sul Corriere della Sera, il Furioso combina inestricabilmente le vicende mitizzate dell’epoca carolingia e quelle dell’epoca ariostesca, che assiste attonita alla scoperta dell’America e all’elezione papale di Alessandro VI Borgia, alla discesa di Carlo VIII in Italia e alla diffusione delle tesi di Lutero, ai roghi dei presunti eretici e alle guerre tra Francesco I e Carlo V, dove le armi da fuoco mostrano definitivamente la loro terrificante disumana potenza. La speranza di Orlando, che scaglia l’archibugio (la «machina infernal») negli abissi perché non sia mai più usata, è destinata a risultare vana; e profetiche sono le parole di Ariosto a commento: «Per te son giti et anderan sotterra / tanti signori e cavallieri tanti, / prima che sia finita questa guerra, / che ‘l mondo, ma più Italia, ha messo in pianti» (XI ,27).

Marialuisa Spaziani

Aveva novantun anni Maria Luisa Spaziani, una delle più grandi poetesse italiane del Novecento, quando nel 2014 è morta a Roma.  Era nata a Torino nel 1922, e a diciannove anni dirigeva una rivista (Il girasole, poi Il dado) dove pubblicava inediti di grandi poeti come Luzi, Sinisgalli, Saba, Penna, Pratolini. L’incontro fondamentale della sua vita avvenne nel gennaio del 1949 con Eugenio Montale: fra i due nacque un sodalizio intellettuale che si trasformò negli anni in affettuosa e sempre più stretta amicizia (a lei si riferirà il poeta ligure con il senhal di “Volpe” nelle poesie della Bufera e in successive raccolte).

Il suo esordio poetico si ha con la silloge ermetizzante Le acque del sabato (1954), «poesie scritte fra i miei venticinque e trentadue anni [come rivela anni dopo] nella mia città natale, Torino, anche se mi capitava sovente di viaggiare con la mia allegrissima e avventurosa famiglia, soprattutto per lontane villeggiature». Nel ‘66 nuove poesie sono raccolte in Utilità della memoria, libro di «violenza esistenziale», come lo definisce l’autrice, nel quale le vicende private si assolutizzano e divengono metafora del difficile periodo storico. Alla fine degli anni settanta esce Transito con catene, una nuova raccolta «ricca di suggestioni diverse e lontane (è lei stessa a definirla così), da quelle della scienza a quelle di una personalissima preistoria, dalla memoria struggente della scomparsa di mia madre a una Parigi ritrovata in altra chiave diciott’anni dopo».

Negli anni ottanta è la volta di due libri che si potrebbero definire gemelli: Geometria del disordine (1981) e La stella del libero arbitrio (1986), dove campeggiano fantasie connesse a paesaggi reali e immaginari, ricordi della madre scomparsa, rinnovate visioni di Parigi, di Milano e dell’amata casa sull’oraziano monte Soratte. Dieci anni dopo la nuova raccolta, I fasti dell’ortica (1996), vede il ventaglio dell’ispirazione aprirsi «dalla musica agli amori alla politica, da un orizzontale narrativo a un verticale simbolico» (è sempre la poetessa a dare queste definizioni). La vera novità del libro sta nell'affiorare di una tematica nuova, che potremmo definire lata-mente politica, ispirata a drammi del XX secolo, dai lager nazisti al mostro di Firenze, dalla guerra in Jugoslavia alla miserevole condizione dell’Italia di fine millennio.

Nei testi successivi forse l’ispirazione della poetessa non è più così limpida, ma continua la sua ricerca spirituale che, interrogando Dio, scandaglia il senso della vita e della poesia, ribadisce il proprio desiderio di avventura, introduce una galleria di personaggi da lei incontrati, da Picasso a Luchino Visconti, da Eugenio Montale a Pablo Neruda, da alcuni grandi musicisti a Padre Pio.

Luna d’inverno

Luna d’inverno che dal melograno
per i vetri di casa filtri lenta
sui miei sonni veloci, di ladro,
sempre inseguito e sempre per partire.
Come un velo di lacrime t’appanna
e presto l’ora suonerà…
                                       Lontano
oltre le nostre sponde, oltre le magre
stagioni che con moto di marea
mortalmente stancandoci ci esaltano
e ci umiliano poi, splenderai lieta
tu, insegna d’oro all’ultima locanda,
lampada sopra il desco incorruttibile
al cui chiarore ad uno ad uno
i visi in cerchio rivedrò che un turbine
vuoto e crudele mi cancella.

Vallon des Gardes

Ti penso in un paese che di vele

e di ulivi fiorisce alla tua ombra,

che risucchia dal cielo una crudele

bellezza di inquietudine profonda,

che ambiguamente un turbine alle rive

scompiglia nelle chiome dolciamare

e i deliranti vortici sprofonda

nel silenzio del mare,

se il tuo sguardo - o la luce? - la saggezza

d’ogni radice beve

(oro, violette, neve).

Sere di inverno

Sere di inverno al mio paese antico,

dove piomba il falchetto dentro i pozzi

d'aria, tra l'uno e l'altro campanile.

Sere rapite a un'onda di sambuchi

invisibili, ai vetri dei muretti

d'ultimo sole accesi, dove indugia

non so che gusto d'embrici e di neve.

Vorrei cogliervi tutte, o mie nel tempo

ebbre, sfogliate voci lungo l'arida

corona dell'inverno,

e ricomporvi in musica, parole

sopra uno stelo eterno.

Tre poesie da Parigi- III

Si sfila il treno dalla pensilina

come sangue che svuoti la vena.

Questo viaggio, lo so, non ha ritorno,

non sei rondine da attendere al nido.

 

E da ieri qui il cielo è di piombo,

la notte è senza zefiro né grido,

questi tetti del nord fra aguzzi spigoli

d’argento mi trafiggono.

 

Esserti al fianco in quell’acerbo volo

d’allodola gaudiosa nella sera!

Ma resterò a guardarti di lontano,

aquilone impigliato a una ringhiera.

Febbraio traditore

Non so quale inquietudine posandosi

a scialle sopra i rami,

sopra le altane che nel vuoto sporgono

come prue di porti insabbiati,

non so che maleficio o ammonimento

o bilico dell’anima

gridano i corvi al baluardo dei platani.

Oggi è scirocco giallo di coriandoli,

già verzica la scorza, in capriole

vanno nubi arlecchine. Incombe nera

solo l’ambigua sonnolenza sua,

del fusto tutto spine, enigma al buio

che il suo vermiglio liquame trasuda,

che ultimo esploderà, sigillo infausto

di primavera, l’albero di Giuda.

La polena

Lunga notte di tigli, le tue dita di miele

raspavano ventose fino a staccare le stelle.

La bella arca amorosa volgeva a oscuri mari

fra smemoranti ondate le sue vele.

 

Io scavavo nel buio quei regni sublunari

tendevo al mio destino esili ragnatele.

Care ombre placate, relitti di corsari,

non sfiori il vostro fiato queste sere.

 

Un tempo (già passato?) la sua più azzurra vena

era il leggio segreto di un foglio troppo bianco.

Quest’altra giovinezza ha sguardo di polena,

turba e travolge un timoniere stanco.

Bilanci consuntivi

Ma tutta quella tristezza che hai vissuto,

(guarda, che strano), dall'alto del monte
non ti sembra un'azzurra mascherata?

E quando vedi i dadi che riposano
sopra il loro responso di numeri,
giureresti che si trattava di un gioco?

A sipario abbassato

Quando ti amavo sognavo i tuoi sogni.
Ti guardavo le palpebre dormire,
le ciglia in lieve tremito.
Talvolta
è a sipario abbassato che si snoda
con inauditi attori e luminarie
– la meraviglia.

Alle vittime di Mauthausen

Troverò in paradiso le parole non dette,

capitelli di colonne rimaste a metà.

Scaglie di stelle esplose, private di ogni luce,

antiche fontane secche che ritrovano il canto.

 

Troverò in paradiso quel macilento tralcio di rosa

che a Mauthausen fiorì dietro la baracca quattordici.

Avrà i suoi occhi ogni cosa capace di durare,

miracolata, innocente, ostinata e radiosa.

 

Troverò in paradiso la tua e la mia pazienza.

Ne faremo un collage con rendez-vous mancati,

velieri arenati, e brandelli di scienza,

bandiere intrise di pianto, ostinate a sventolare.

Parigi dorme

Parigi dorme. Un enorme silenzio
è sceso ad occupare ogni interstizio
di tegole e di muri. Gatti e uccelli
tacciono. Solo io di sentinella.

Agosto senza clacson. Sopravvivo
unica, forse. Tengo fra le braccia
come Sainte Geneviève la mia città
che spunta dal mantello, in fondo al quadro.

Lo spazio magico

Ecco lo spazio magico in cui niente si è detto
ma il senso affiora da nebbie di preistoria.
Dormiamo in case lontane chilometri
ma i nostri sogni si congiungono in alto.

È così perfetta l'attesa (o l'intesa)
che sarà peccato trasformarla in parole.
Dovremmo preferire alla vita il silenzio
anche se questo silenzio è quintessenza della vita?

A giorni alterni

A giorni alterni sono io la luna
e tu l'immensa terra che mi attira,
e questa notte tu sei la luna
- io ti tengo al guinzaglio -.
So che mi stai sognando, mi accarezzi,
i globuli lo sanno del mio sangue,
ogni mio nervo teso come un arco
o un'arpa eolia che vibra al respiro.

Palla di neve

Luna succosa da mangiare a spicchi,
asprodolce limone,
palla di neve sulla pelle ardente -
nessun uomo così saprà baciare -

Non ti amerò di più, non ti amerò di meno,
sono lassù una luna senza quarti.
Il lume splende intatto nel sereno,
non ti amerò di meno, non ti amerò di più.

Testamento

Lasciatemi sola con la mia morte.
Deve dirmi parole in re minore
che non conoscono i vostri dizionari.
Parole d'amore ignote anche a Petrarca,
dove l'amore è un oro sopraffino
inadatto a bracciali per polsi umani.

Io e la mia morte parliamo da vecchie amiche
perché dalla nascita l'ho avuta vicina.
Siamo state compagne di giochi e di letture
e abbiamo accarezzato gli stessi uomini.
Come un'aquila ebbra dall'alto dei cieli,
solo lei mi svelava misure umane.

Ora m'insegnerà altre misure
che stretta nella gabbia dei sei sensi
invano interrogavo sbattendo la testa alle sbarre.
È triste lasciare mia figlia e il libro da finire,
ma lei mi consola e ridendo mi giura
che quanto è da salvare si salverà.

Sandro Boccardi

Sandro Boccardi è noto soprattutto come musicista e organizzatore di concerti in alcune delle chiese d’arte più importanti di Milano: tra l’altro fondò e curò per trent'anni, dal 1976 al 2006, la straordinaria rassegna Musica e Poesia a San Maurizio, promosse la costruzione dell'organo Ahrend per la Basilica di San Simpliciano e fece eseguire in dieci anni, dal 1994 al 2004, l’intero corpus delle Cantate di Bach in collaborazione con la Società del quartetto di Milano. Per le Edizioni 32 ha diretto la collana di poesia Il bicordo, pubblicandovi testi di Yannis Ritsos, Günter Grass, Albino Pierro e il volume d’esordio di Franco Loi, I cart.

Malgrado questa frenetica attività, non ha però mai trascurato la poesia, scegliendo di recuperare il mondo della Bassa Lodigiana, da cui proviene, con toni vivi e luminosi, senza mai scadere nell’impressionismo bozzettistico. Dopo la raccolta d’esordio, A dispetto delle sentinelle (1963), ha pubblicato quattro volumi presso Scheiwiller: La città (1965), Durezze e ligature (1967), Ricercari (1973), Le tempora (1978). È seguito un lungo periodo di silenzio, interrotto nel 1999 dalle nuove poesie che, apparse prima sulle riviste Kamen (Lodi 2004), Bloc notes (Lugano 2005) e Graphie (Cesena 2006), sono poi confluite nella nuova raccolta del 2006, Sonetti per gioco e rancore. Del 2012 infine è Partiture d’acqua e di terra, dove i riferimenti all’amata terra padana s’intrecciano con le ricorrenti domande esistenziali.

Quella di Boccardi è una poesia densa di rimandi alla musica e ai suoi strumenti, come è ovvio, ma si avvale di una polifonia dissonante che, nell’impasto di dialettalismi e cultismi, forestierismi e arcaismi, porta a esiti di straordinaria raffinatezza, senza che questo diventi sfoggio di bravura, ma rivelando piuttosto una voce meditativa, terragna, nello stesso tempo simbolica e concreta. Più che un poeta, pare quasi che Boccardi sia un direttore d’orchestra capace di armonizzare e assemblare i reperti più inusuali: i suoni e i colori, gli insetti e le pietre, gli animali e le liturgie, le vicende religiose (come nella splendida Annunciazione) e i lavori agricoli che si ripetono immutati da secoli nella terra lombarda. E attraverso queste epifanie egli ha saputo interrogarsi incessantemente sul senso della vita e sul destino dell’uomo, convinto che l’apparente assurdità e disarmonicità della vita debba avere una spiegazione, e che in ogni caso l’esistenza sia troppo interessante per non volerla vivere in pienezza, ricercando costantemente l’armonia sottesa all’apparente disordine.

«Poeta del riserbo» lo definì Guido Oldani, e mai definizione fu più calzante: la sua malinconia lieve, la sua poesia che si fa preghiera intima e sussurrata, i valori che propone, semplici e tenaci, fanno di lui un poeta religioso latu sensu, perché la sincerità che lo caratterizza non prevarica mai sulla realtà, né mai diviene strumento di contrapposizione o ricerca di egemonia. Poesia è per lui un costante duraturo colloquio tra gli uomini, con il mondo e con gli uomini, uno strumento (musicale) che può dare risposte che vanno oltre la razionalità.

Buio

Ora per me

per me si completa il passaggio

perché dolore umano non si nutre

di sé se non mutando in fiori

fiori di buio semi della notte

fiori stipati d’acqua mentre inclina

la nube sui tetti di lavagna mentre

con manciate di ghiaccio la tempesta

scivola e grugnisce

contro il tepore oscuro di me

contro il mio nulla di me il fiato

che appanna lo specchio

(quando si vedrà se siamo morti o vivi

o bios o inerzia

o fiori…)

A Barbara

Barbara, sai,

marzo è una rosa di correnti d’aria

che toglie il fiato,

arruffa propositi, anima, consensi,

lungo i sentieri d’erbe mareggiate

qui dove il verde dove il vento insieme

rimescola semi e fioriture

qui nei lombardi chiari appezzamenti.

Barbara, dico: è inutile resistere

la polvere sale come un ventaglio

sopra le aie piccole padane

scricchiola batte alle verdi persiane

la voce genuflessa della primavera.

Le tempora II

Estate, verdi ramarri al sole,

trapunta di ricordi come d’erba i prati,

il fieno sente i rebbi della forca,

viene l’odore buono del rigoglio

(erba salina bisiàda dal biss

che la Madona la benediss)

polvere e rovi e sul brusio dei gelsi

smangiati dai bachi sulle stuoie

il primo rintronare da levante.

Anima nostra tessuta come il solco

da grumi di radici nell’incerto

aspettare dell’adolescenza…

ma rimuovendo la pàtina del tempo

velo di fiato sullo specchio, il morso

le cicatrici dell’amore ancora

gridano te.

Le tempora IV

Quale terrena rosa luce
grembo di foglie nell’ombrìa di luce
zolla spezzata dal gelo del sereno
latte frumento acerbo dondolare
di paglia e spighe verderame mare
capelli avvolti fra le dita e il vento
e tu garza di rosa che si sbenda in fumo
da giorni a giorni salendo questa scala
di toni e semitoni e riprecipiti
piuma soave e tronco che ci curva
le spalle.

Le tempora VI

La liturgia dei lutti soffocati

da neri paramenti, lungo strade

di polvere e pioppi fulminati

dove la piena del silenzio sente

la gran pietà degli abiti sciupati

e l’afa, e il senso del disfarsi

si fa più acuto al peso

d’un passero che lasci il ramo e scuota

per avventura un unico suo cuore

di foglia in cima: addio

addio dalla fatica della Bassa.

Già nel breve accomiatarsi

di gente stanca verso il cimitero

al magro asperges di peccati e venie

da fatica e d’artrite mi stordivo

d’un miserere senza lacrime.

Ed ora quasi

nell’ora antelucana delle tempora

anche te accompagnammo

tra il granoturco che matura a groppi

di capelli arruffati e pennacchi di ruggine

come regina longobarda cui il cilicio

di materne ansie e di cure

addolciva il carattere.

E al più lieve stormire sei, ritorna

ora che il grano separato dai tutoli e da pula

nube di polline nel sole cieco

dolce ti oscura, acre ti rischiara.

Annunciazione

Per la prima Sonata sui Misteri del Rosario di Heinrich Ignaz Franz Biber

 

Da un pulviscolo di molecole impazzite

apparve l’angelo e disse ave

e la donna si turbò,

le mani strette al grembo.

Caddero lamine e lapilli,

bagliori come li vedono i morenti

nel cono del risucchio;

fiamme come le soffrono i nascenti

nel grido dello strappo.

Rabbrividiva il Magnificat della donna

nel turbine del sangue

e il gelo salì a scaldarle le guance

d’un rosso acceso di Verità.

Se fosse un mistero di gaudio o dolore,

un cammino fra i gigli o le spine

l’angelo non lo disse, l’ombra gli era attorno

come l’enigma di un’eclisse:

disse soltanto ave

e nel vento sparì.

Se fuoco

Se fuoco mette fiamma nella paglia,

se fiamma rade pula e incenerisce

ogni raccolto, maledetta estate.

Prega tu il signore delle messi

che ci risparmi il peso di non essere pronti

prima alla feroce siccità e poi

alle cateratte della grandine.

Buttare l’ironia

Buttare l’ironia, questo vestito
che cela le menzogne.
Scrivere parole
di pietra e di sudore
dove il mondo si liberi
nella totale integrità del tempo
come ammasso di cose magma di materie
che urgono a farsi risultato.

A filo d’acqua

A filo d’acqua i filiformi ragni

scattano avanti e indietro come un pendolo

segnando un centro tra due punti arcani.

Qual è il ghiribizzo di un pensiero  

- il silenzio

- la morte?

Pur ogni cosa si muove dall’ombra

anche la nuvola riflessa nella roggia.


*
La nuova vita
sembra ancora più bella
quando si è vecchi.
È come se da un vaso
dimenticato sul balcone
fra i cocci mescolati a terra
sbucasse un croco giallo.

 

*
Il mattino arriva
con cinque monetine
a portare la luce
dai tetti alle vetrine
inizia la cinciallegra
poi vengono i passeri
ripassano il latino
sul loro pentagramma
un merlo scuote la rugiada
dal nero delle piume
così disputa il vetro nel barlume
di una goccia di giada
la quinta monetina è il sole
un centesimo di rame
sopra il cavalcavia.
Poi quando la vita cresce
sono i talenti a stabilire
i tempi a venire.


Giovanni Raboni

Mi sembrava che una poesia fosse un vetro attraverso il quale si potevano vedere molte cose – forse, tutte le cose […] Di ogni poesia avrei voluto fare un osservatorio difesissimo e trasparente, un osservatorio per guardare la vita – cioè, forse, per non viverla. Questa autodefinizione di Raboni (1932-2004) mostra come egli abbia sempre voluto cogliere la realtà profonda delle cose e delle persone, usando i registri più vari, da quello onirico a quello cronachistico, da quello colto a quello colloquiale, senza perdere mai di vista la concretezza dei riferimenti a paesaggi, persone, vicende storiche spesso affrontate con sguardo esplicitamente politico (“ho affrontato temi civili semplicemente perché ne sentivo l’urgenza […] o per un moto di indignazione, o di preoccupazione, o di sgomento). Milanese, laureato in legge, consulente di Garzanti, di Mondadori e infine di Guanda, critico letterario e teatrale, poeta, prosatore, drammaturgo, traduttore (tra gli altri Flaubert, Molière, Apollinaire, Prévert, Racine, Claudel, Proust), Raboni si era formato da autodidatta sulla grande tradizione poetica italiana, ma ancora più su quella dei poeti inglesi e americani, da Dickens a Faulkner, da Ezra Pound a Melville, da Steinbeck ad Hemingway, prendendo in particolare da Eliot la concezione del “correlativo oggettivo”.

Dopo le prime prove degli anni sessanta e settanta, era giunto a riscoprire e rivitalizzare le forme chiuse della tradizione, a partire dai Versi guerrieri e amorosi (1990) e da Ogni terzo pensiero (1993); la ricerca metrica era proseguita poi nelle successive raccolte: Nel libro della mente (1997), Quare tristis (1998), Barlumi di storia (2002) e Ultimi versi (2006, postumi con una postfazione della poetessa Patrizia Valduga, sua compagna dal 1981). Molto suggestive sono anche le poesie per bambini Un gatto più un gatto, edite da Mondadori nel 1991. Poco dopo la sua morte, nel 2004, Einaudi ha pubblicato in un corposo volume Tutte le poesie di oltre cinquant’anni di produzione.

Campeggia nella lirica di Raboni l’amata città di Milano, con le sue strade e piazze, i suoi abitanti e i suoi monumenti, che vengono ritratti in scene vivaci e ricche di pathos. Altro tema da lui affrontato è quello amoroso, visibile soprattutto nelle Canzonette mortali, dove il racconto di sé entra in modo esplicito nella poesia. Ma forse la tematica più affascinante è la riflessione sulla vita e sulla morte, che Raboni vede in stretta contiguità, non come elementi di contrasto ma come facce di una stessa realtà, nella quale vivi e defunti possono dialogare e incontrarsi. Nel corso degli anni questa meditazione si è fatta sempre più intensa ed appassionata, fino alle ultime emozionanti poesie postume.

Città dall'alto

Queste strade che salgono alle mura

non hanno orizzonte, vedi: urtano un cielo

bianco e netto, senz'alberi, come un fiume che volta.

Da qui alle processioni

dei signori e dei cani

che recano guinzagli, stendardi

reggendosi la coda

ci saranno novanta passi, cento, non di più:

però più giù, nel fondo della città

divisa in quadrati (puoi contarli) e dolce

come un catino... e poco più avanti

la cattedrale, di cinque ordini sovrapposti: e proseguendo

a destra, in diagonale, per altri

trenta o quaranta passi - una spanna: continua a leggere

come in una mappa - imbrocchi in pieno l'asse della piazza

costruita sulle rocciose fondamenta del circo romano

grigia ellisse quieta dove

dormono o si trascinano enormi, obesi, ingrassati

come capponi, rimpinzati a volontà

di carni e borgogna purché non escano dalla piazza! i poveri

della città. A metà tra i due fuochi

lì, tra quattrocento anni

impiantano la ghigliottina.

Il compleanno di mia figlia

Siano con selvaggia compunzione accese
le tre candele.
Saltino sui coperchi con fragore i due
compari di spada compiuti uno
sei anni e mezzo, l’altro cinque
e io trentaquattro e la mamma trentadue
e la nonna, se non sbaglio, sessantotto.
Questa scena non verrà ripetuta.
La scena non viene diversamente effigiata. E chi
si sentisse esule o in qualche
percentuale risulta ingrugnato
parli prima o domani.
Accogli, streghina di marzapane, la nostra sospettosa tenerezza.
Seguano come a caso stridi
di vagoni piombati, raffiche di mitragliatrice...

Canzonette mortali

Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro

e solo del futuro, di nient’altro

ho qualche volta nostalgia

ricordo adesso con spavento

quando alle mie carezze smetterai di bagnarti,

quando dal mio piacere

sarai divisa e forse per bellezza

d’essere tanto amata o per dolcezza

d’avermi amato

farai finta lo stesso di godere.

 

Le volte che è con furia

che nel tuo ventre cerco la mia gioia

è perché, amore, so che più di tanto

non avrà tempo il tempo

di scorrere equamente per noi due

e che solo in un sogno o dalla corsa

del tempo buttandomi giù prima

posso fare che un giorno tu non voglia

da un altro amore credere l’amore.

 

Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno

dopo l’altro ti lascio, anima mia.

Per gelosia di vecchio, per paura

di perderti – o perché

avrò smesso di vivere, soltanto.

Però sto fermo, intanto,

come sta fermo un ramo

su cui sta fermo un passero, m’incanto…

 

Non questa volta, non ancora.

Quando ci scivoliamo dalle braccia

è solo per cercare un altro abbraccio,

quello del sonno, della calma – e c’è

come fosse per sempre

da pensare al riposo della spalla,

da aver riguardo per I tuoi capelli.

La guerra

Ho gli anni di mio padre – ho le sue mani,

quasi: le dita specialmente, le unghie,

curve e un po’ spesse, lunate (ma le mie

senza il marrone della nicotina)

quando, gualcito e impeccabile, viaggiava

su mitragliati treni e corriere

portando a noi tranquilli villeggianti

fuori tiro e stagione

nella sua bella borsa leggera

le strane provviste di quegli anni, formaggio fuso, marmellata

senza zucchero, pane senza lievito,

immagini della città oscura, della città sbranata

così dolci, ricordo, al nostro cuore.

Guardavamo ai suoi anni con spavento.

Dal sotto in su, dal basso della mia

secondogenitura, per le sue coronarie

mormoravo ogni tanto una preghiera.

Adesso, dopo tanto

che lui è entrato nel niente e gli divento

giorno dopo giorno fratello, fra non molto

fratello più grande, più sapiente, vorrei tanto sapere

se anche i miei figli, qualche volta, pregano per me.

Ma subito, contraddicendomi, mi dico

che no, che ci mancherebbe altro, che nessuno

meno di me ha viaggiato fra me e loro,

che quello che gli ho dato, che mangiare

era? non c’era cibo nel mio andarmene

come un ladro e tornare a mani vuote…

Una povera guerra, piana e vile,

mi dico, la mia, così povera

d’ostinazione, d’obbedienza. E prego

che lascino perdere, che non per me

gli venga voglia di pregare.

Cerco qualche volta di immaginare

Cerco qualche volta di immaginare

la felicità, mia e dei morti, e mi sembra

che sia la vita. Forse perché chiare

nella luce che già un po’ s’insettembra

 

sono adesso le cose e a meno amare

vertigini trascina e tanta assembra

più pazienza, più requie il declinare

del tempo è come se da queste membra

 

arse e dilaniate l’immensa salma

del mondo risorgesse in una calma

radiosa e stesse al cuore assaporare

 

l’infinito dolcissimo ritardo

del bene, e sentire l’Olona e l’Ardo

per come si chiamano risuonare.

Tanto difficile da immaginare

Tanto difficile da immaginare,

davvero, il paradiso? Ma se basta

chiudere gli occhi per vederlo, sta

lì dietro, dietro le palpebre, pare

 

che aspetti noi, noi e nessun altro, festa

mattutina, gloria crepuscolare

sulla città invulnerata, sul mare

di prima della diaspora – e si desta

 

allora, non la senti? una lontana

voce, lontana e più vicina come

se non l’orecchio ne vibrasse ma

 

un altro labirinto, una membrana

segreta, tesa nel buio a metà

fra il niente e il cuore, fra il silenzio e il nome…

Dopo la vita, cosa?

Dopo la vita, cosa? ma altra vita,

si capisce, insperata, fioca, uguale,

tremito che non s’arresta, ferita

che non si chiude eppure non fa male

 

- non più, non tanto. Lentamente come

risucchiati all’indietro da un’immensa

moviola ogni cosa riavrà il suo nome,

ogni cibo apparirà sulla mensa

 

dov’era, sbiadito, senza profumo…

Bella scoperta. È un pezzo che la mente

sa che dove c’è arrosto non c’è fumo

e viceversa, che fra tutto e niente

 

c’è un pietoso armistizio. Solo il cuore

resiste, s’ostina, povero untore.

Si farà una gran fatica

Si farà una gran fatica, qualcuno

direbbe che si muore – ma a quel punto

ogni cosa che poteva succedere

sarà successa e noi

davanti agli occhi non avremo

che la calma distesa del passato

da ripassare senza fretta

fermando ogni tanto l’immagine,

tornando un po’ indietro, ogni tanto,

per capire meglio qualcosa,

per assaporare un volto, un vestito…

Sì, tutto in bianco e nero, se Dio vuole.

E tutto, anche le foglie che crescono,

anche i figli che nascono,

tutto, finalmente, senza futuro.

Li rivedrò

Li rivedrò, mi rivedranno, loro

forse già si rivedono

dove la ghiaia s’apre a mezzaluna

e nell’ora del viavai delle rondini

si possono tenere d’occhio

le circonvoluzioni della gioia

sperando che arrivi, sperando

che non arrivi, che per sempre

stia lontana di quel tanto, lei sì,

nel suo non fermarsi, immortale

- ma a quale età l’un l’altro, assomigliando

a quale delle immagini che il tempo

ha impresso via via di ciascuno

nella memoria di ciascuno?

Ecco, il thriller dell’eternità…

Cristina Campo

Quarant’anni fa moriva a Roma Vittoria Guerrini, più nota con il nome d’arte di Cristina Campo: poco apprezzata allora come poetessa, riscoperta in anni recenti, ma forse ancor oggi alquanto sottovalutata. Certo la sua produzione poetica è quantitativamente limitata (una sola raccolta edita, Passo d’addio, nel 1956), ed ha contribuito al misconoscimento anche la sua volontà di eclissarsi, se pensiamo che ella amava dire di sé: "Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto meno”. Ma estremamente interessante è la ricerca che ella attua del senso della vita e la totale identificazione tra vita e opera che si respira nella sua poesia. Scrivere era per lei pregare (“Ma io non ho, davvero, che la poesia come preghiera”), cercare nelle realtà materiali “echi che alludono ad altre cose”, navigare verso la verità essenziale dell’essere.

Hugo von Hofmannsthal e Simone Weil furono le sue “ombre protettrici”, gli autori che più influenzarono il suo pensiero; ma numerose altre frequentazioni risultarono determinanti nel suo cammino culturale, da Scheiwiller a Leone Traverso, da Luzi a Sereni, da Montale alla Spaziani, da Turoldo a Silone, da Pound a Eliot. Ciò non toglie che il suo stile resti personalissimo, caratterizzato da una profonda ricerca della parola esatta e incisiva, della bellezza e purezza assoluta.

Dopo la sua morte sono apparsi pochi altri testi poetici, che non vanno però considerati (come alcuni critici hanno ritenuto) “versi dispersi”, bensì tessere di una raccolta organica, che la Campo avrebbe anche voluto pubblicare con il titolo Le temps revient, a sottolineare le tappe della sua quête spirituale, il “tentativo di capire – e di sopportare” la vita, in un sempre più fitto dialogo con i testi sacri e gli autori amati. Straordinaria è anche l’ultima tappa della sua produzione poetica, i quasi duecento ostici e densi versi del Diario bizantino, che testimoniano la sua convinta adesione alla religione ortodossa, l’unica (ella riteneva) in grado di spalancarle le strade della mistica, alla scoperta della “meravigliosa carnalità della vita divina”, l’unica quindi che avrebbe potuto opporsi alle forze del caos che ella vedeva approssimarsi: “Dio non parla nel tuono: / parla in un piccolo alito / e ci si vela il capo per il terrore”.

Biglietto di Natale a M. L. S.

Maria Luisa quante volte
raccoglieremo questa nostra vita
nella pietà di un verso, come i Santi
nel loro palmo le città turrite?

La primavera quante volte 
turbinerà i miei grani di tristezza
dentro le piogge, fino alle tue orme
sconsolate - a Saint Cloud, sulla Giudecca?

Non basterà tutto un Natale
a scambiarci le favole più miti:
le tuniche d'ortica, i sette mari,
la danza sulle spade.

" Mirabilmente il tempo si dispiega..."
ricondurrà nel tempo questo minimo
corso, una donna, un atomo di fuoco:
noi che viviamo senza fine.

Moriremo lontani

Moriremo lontani. Sarà molto
se poserò la guancia nel tuo palmo
a Capodanno; se nel mio la traccia
contemplerai di un’altra migrazione.

Dell’anima ben poco
sappiamo. Berrà forse dai bacini
delle concave notti senza passi,
poserà sotto aeree piantagioni
germinate dai sassi…

O signore e fratello! ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:

«nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta».

Ora che capovolta è la clessidra

Ora che capovolta è la clessidra,
che l’avvenire, questo caldo sole,
già mi sorge alle spalle, con gli uccelli
ritornerò senza dolore
a Bellosguardo: là posai la gola
su verdi ghigliottine di cancelli
e di un eterno rosa
vibravano le mani, denudate di fiori.

 

Oscillante tra il fuoco degli uliveti,
brillava Ottobre antico, nuovo amore.
Muta, affilavo il cuore
al taglio di impensabili aquiloni
(già prossimi, già nostri, già lontani):
aeree bare, tumuli nevosi
del mio domani giovane, del sole.

Amore, oggi il tuo nome

Amore, oggi il tuo nome
al mio labbro è sfuggito
come al piede l'ultimo gradino...

ora è sparsa l'acqua della vita
e tutta la lunga scala
è da ricominciare.

T'ho barattato, amore, con parole.

Buio miele che odori
dentro diafani vasi
sotto mille e seicento anni di lava -

ti riconoscerò dall'immortale
silenzio.

Devota come ramo

Devota come ramo
curvato da molte nevi
allegra come falò
per colline d’oblio,

 

su acutissime làmine
in bianca maglia d’ortiche,
ti insegnerò, mia anima,
questo passo d’addio…

Un anno… Tratteneva la sua stella

Un anno… Tratteneva la sua stella
il cielo dell’Avvento. Sulla bocca
senza febbre o paura la mia mano
ti disegnava, oscura, una parola.
E la sfera dell’anima e dell’anno
vibrava in cima a uno zampillo d’oro
alto e sottile, il sangue.

Ne tremavano
sorridenti gli sguardi – all’accostarsi
buio di quel guardiano incorruttibile
che nei giardini chiude le fontane.

Oltre il tempo, oltre un angolo

What sorrow
beside your sadness
and what beauty
W.C. Williams


Troppe cose hanno accolto le tue palpebre

l'attenzione ti ha consumato le ciglia.

Troppe vie t'hanno ripetuta,

stretta, inseguita.

 

La città da secoli ti divora

ma travede per te, sogno e sfacelo

di luci e piogge, lacrime senili

sulla ragazza che passa

febbrile, indomabile, oltre il tempo, oltre un angolo.

 

Ritorna! Gridano i vecchi di Santa Maria del Pianto,

la frotta della Piscina di Siloè

con i randagi, gl'ibridi, gli spettri

che non si sanno e tu sai

radicati con te

nel glutine blu dell'asfalto

e credono al tuo fiore che avvampa, bianco –

 

poiché tutti viviamo di stelle spente.

Sindbad

L’aria di giorno in giorno si addensa intorno a te

di giorno in giorno consuma le mie palpebre.

L’universo s’è coperto il viso

ombre mi dicono: è inverno.

 

Tu nel vergine spazio dove si cullano

isole negligenti, io nel terrore

dei lillà, in una vampa di tortore,

sulla mite, domestica strada della follia.

 

Si stivano canapa, olive

mercati e anni... Io non chino le ciglia.

Mezzanotte verrà, il primo grido

del silenzio, il lunghissimo ricadere

del fagiano tra le sue ali.

Elegia di Portland Road

Cosa proibita, scura la primavera.

 

Per anni camminai lungo primavere

più scure del mio sangue. Ora tornano sul Tamigi

sul Tevere i bambini trafitti dai lunghi gigli

le piccole madri nei loro covi d’acacia

l’ora eterna sulle eterne metropoli

che già si staccano, tremano come navi

pronte all’addio...

 

Cosa proibita

scura la primavera.

 

Io vado sotto le nubi, tra ciliegi

così leggeri che già sono quasi assenti.

Che cosa non è quasi assente tranne me,

da così poco morta, fiamma libera?

 

(E al centro del roveto riavvampano i vivi

nel riso, nello splendore, come tu li ricordi

come tu ancora li implori).

Due mondi

Due mondi - e io vengo dall'altro.

Dietro e dentro

le strade inzuppate

dietro e dentro

nebbia e lacerazione

oltre caos e ragione

porte minuscole e dure tende di cuoio,

mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo,

inenarrabilmente ignoto al mondo.

dal soffio divino

un attimo suscitato,

dal soffio divino

subito cancellato,

attende il Lume coperto, il sepolto Sole,

il portentoso Fiore.

 

Due mondi - e io vengo dall'altro.

 

La soglia, qui, non è tra mondo e mondo

né tra anima e corpo,

è il taglio vivente ed efficace

più affilato della duplice lama

che affonda

sino alla separazione

dell'anima veemente dallo spirito delicato

- finché il nocciolo ben spiccato ruoti dentro la polpa -

e delle giunture degli ossi

e dei tendini delle midolla;

la lama che discerne del cuore

le tremende intenzioni

le rapinose esitazioni. […]

Biagio Marin

Figlio di un oste, presto orfano di madre, Biagio Marin era nato a Grado (allora territorio austroungarico) nel 1891; a vent’anni si unì a Firenze al gruppo dei triestini attivi allora nell'ambito della "Voce", divenendo amico in particolare di Virgilio Giotti, Giani Stuparich e Scipio Slataper (veniva scherzosamente chiamato "l'ombra di Scipio"). Dopo aver combattuto volontario contro l'Austria, nel dopoguerra si laureò a Roma in filosofia; fu quindi insegnante, ispettore scolastico, impiegato e bibliotecario. Nel 1943 perse in guerra l'amatissimo figlio Falco; ritiratosi nell'isola natale con la moglie Pina, vi rimase fino alla morte, nel 1985.

La sua attività poetica, quasi esclusivamente in dialetto, si è prolungata per oltre settant'anni, da Fiuri de tapo (Fiori di barena, [un isolotto lagunare], 1912) a La vose de la sera (La voce della sera, 1985), rivelando una singolare continuità di temi e maniere; egli stesso afferma in una poesia del 1982: "El canto mio/ l'ha poche note,/ [...] quatro soltanto"). Indubbiamente però si avverte dalle prime alle ultime prove un affinamento di toni e un più intenso equilibrio compositivo, che molto devono da un lato alla lezione del quasi conterraneo Saba, dall’altro alla grande poesia novecentesca spagnola (da Machado a Jimenez) e tedesca (Goethe, Heine, Rilke). Dal punto di vista linguistico, Marin ha reinventato un dialetto gradese arcaico infondendovi la sua vasta cultura mitteleuropea e riversandovi ritmi, timbri e melodie personalissimi.

Costante è in lui la ricerca del senso della vita, cui danno corpo specialmente gli oggetti, gli animali, i personaggi dell'amata Grado: conchiglie, gabbiani, rondini, nuvole, bastimenti, le aggraziate figure femminili che animano calli e campielli dell'amata Grado, sono ritratti con poche linee essenziali, nella convinzione che le umili realtà quotidiane rivelino pienamente il soprannaturale. In un’intervista del 1985 Marin affermava: «L’essenza della poesia consiste nella possibilità di astrarre la quotidianità e convertirla in eternità». Vivere in una piccola isola com’era allora Grado gli permette di cogliere il valore incommensurabile dell’"insularità", condizione umana e poetica di perfetta consonanza con la natura, la quale rivela (a chi sa osservarla) la forza creatrice dell’universo, l’anima divina che pervade ogni elemento del cosmo, perché «la vita è tutta un volo / verso l’eternità».

Tanti mai versi

Tanti mai versi

e duto incora tase, oculto;

tant’ani de culto

del dì e incora i zurni xe roversi.

Cu leserà i silinsi,

tra nota e nota

de l’anema che varda imota

drento i so spassi iminsi?

Cu sintirà cantà

le pagine nel bianco

del margine a fianco

de tanto ingrisà?

I gno libri xe tanti

la gno puisia la speta

l’ora più queta,

quela dei larghi siti canti.

Talmente tanti versi / e tutto ancora tace, occulto; / tanti anni di culto / del giorno e ancora i giorni sono a rovescio. / Chi leggerà i silenzi, / tra nota e nota / dell’anima che guarda immobile / dentro i suoi spazi immensi? / Chi sentirà cantare / le pagine nel bianco / del margine a fianco / di tanto ingrigirsi? / I miei libri sono tanti / ma la mia poesia attende / l’ora più quieta, / quella dei larghi canti silenti.

Quanto più moro

Quanto più moro
presenza
al mondo intermitente
e luse che se spenze, de ponente
tanto più de la vita m’inamoro.
E del so rîe che fa fiurî l’avril
e del miel che l’ha in boca,
la prima neve che za fioca
sia pur lenta e zentil.
Melodioso l’andâ per strà
de l’anca mola nel menèo
che ondesa comò fa ‘l canèo
nel maistral disteso de l’istà.
Musica in ela
e in duta la persona
che duta quanta sona
de quela zoigia che m’insiela.
Quela musica duta la me intona
la fa de me corente d’aqua viva
che in mar se perde senza riva
e solo el perdimento la ragiona.          

Quanto più muoio / presenza / nel mondo intermittente / e luce che si spegne, da ponente, / tanto più della vita m’innamoro. / E del suo ridere che fa fiorire l’aprile / e del miele che ha in bocca, / la prima neve che già fiocca / sia pure lenta e gentile. / Melodioso andare per strada / nell’ondulare dell’anca molle / che ondeggia come fa il canneto / nel maestrale disteso dell’estate. / Musica in lei / e in tutta la persona / che tutta quanta suona / di quella gioia che mi inciela. / Quella musica tutta mi intona, / fa di me corrente d’acqua viva / che si perde in un mare senza riva / e solo il perdimento suo ragiona.        

Antifona

Stele filanti semo
picole scagie che se brusa in svol;
se snoda ‘l fil, cussí se disfa ‘l gemo,
cô ‘l zuogo ha fin, piú ninte in cuor ne duol.

Stelle filanti siamo / piccole scaglie che si bruciano in volo; / si snoda il filo, così si disfa il gomitolo, / quando il gioco ha fine, più nulla in cuore ci duole.

Preghiera xe consentimento

Preghiera xe consentimento
al fiurî d'un roser,
dâ-'i l'ala ad un pensier
al vento fâsse bastimento.

Preghiera xe tremor
davanti a un viso ciaro
e xe l'amor
per un radicio amaro.

El caminâ lisiero
ne l'aria marsulina
e scoltâ, la mantina,
el canto d'un oselo.

Preghiera è consentimento / al fiorire di un rosaio, / dar l'ala ad un pensiero, / al vento farsi bastimento. / Preghiera è tremore / davanti a un viso chiaro / ed è l'amore / per un radicchio amaro. / È il camminar leggero / nell'aria marzolina / ed ascoltare, la mattina, / il canto di un uccello.

No la voleva i basi

No la voleva i basi

e me ‘i disevo: «Tasi»,

e la svaniva in lontanansa

de ritornâ sensa speransa.

 

La boca sova

podeva basâ ‘l sielo,

valìa più d’elo,

e senpre viola nova.

 

Bêvela duta,

no gera mai pecào:

ela la steva muta

fin che ‘l so posso gera consumào.

Non voleva baci / e io le dicevo: «Taci», / e lei svaniva in lontananza / senza speranza di ritorno. // La sua bocca / poteva baciare il cielo, / più tenera di questo, / e sempre viola nuova. // Berla tutta / non era mai peccato: / lei stava muta / finché il suo abbandono era consumato.

La vita xe birbante

La vita xe birbante

cô le pute la infiora

e i puti se inamora

de quel ondâ de l’anche.

 

Nasse filgiuoli

e canta rusignoli,

el mar el rìe

co’ le restìe.

La vita è birbante / quando le fanciulle la infiorano / e i giovinetti s’innamorano / di quell’ondeggiare delle anche. // Nascono figlioli / e cantano usignoli, / il mare ride / con le sue onde.

Me no sarè più qua

Me no sarè più qua,

nel ninte va i vivinti

e cala duti i vinti,

per senpre, de l’imensità.

 

Cussì va la persona,

l’àlboro, el nuòlo:

la vita duta un svolo

verso l’eternità.

Io non sarò più qui, / nel niente vanno i viventi / e calano tutti i venti / dell’immensità, per sempre, // Così va la persona, / l’albero, la nuvola: la vita è tutta un volo / verso l’eternità.

Me, a la morte vago

Me, a la morte vago

al sono ne l’eterna onbrìa,

e vivo l’angunia

e, del murî, son pago.

 

Ogni alboro se suga,

e pian a pian el more,

i nuòli in sielo passa in fuga,

e passa dute l’ore.

Io vado alla morte / al sonno nell’ombra eterna, / e vivo l’agonia / e del morir son pago. // Ogni albero dissecca, / e piano piano muore, / le nuvole in cielo passano in fuga, / e passano tutte le ore.

No’ importa che se mora

No’ importa che se mora

fin che i bei puti albisa,

sini novi s’armisa,

nove spale s’indora.

Lassa che la fiumana scora

e duti porti via,

a refoli de buora,

in bona compagnia.

Ché duti, duti

e veci e puti

solo muminti,

può via ne porta i vinti

comò i antichi bastiminti

ne la note distante.

Non importa che si muoia / finché bambini belli spuntano come l’alba, / nuovi seni si ergono, / nuove spalle s’indorano. / Lascia che la fiumana scorra / e porti via tutti, / a folate di bora, / in buona compagnia. / Perché tutti, tutti / vecchi e bambini / siamo solo momenti, / poi ci portano via i venti / come gli antichi bastimenti / nella notte distante.

Ben dissôlvesse in luse,

Ben dissôlvesse in luse,

no deventâ sinisa

che mai la verdisa

e a Dio no la conduse.

 

Luse, parola creativa,

realtà senpre viva,

che d’ogni créa

verde e fiuri ricrea.

 

Luse, moto zogioso,

e dolor mai,

zogia de duti i istài,

tempo miracoloso.

 

Nasse i fruti, i oseli,

i ómini noveli,

de tanto amor

de luse in fior.

 

In tu sparî,

musical muvimento,

grassia del firmamento,

in tu vogio sparî.

È bene dissolversi in luce, / non diventare cenere / che mai rinverdisce / e a Dio non conduce. // Luce, parola creativa, / realtà sempre viva, / che da ogni creta / ricrea verde e fiori. // Luce, moto gioioso, / e mai dolore, / gioia di tutte le estati, / tempo miracoloso. // Nascono i frutti, gli uccelli, / gli uomini nuovi, / da tanto amore / di luce in fiore. // In te sparire, / movimento musicale, / grazia del firmamento, / in te voglio sparire.

Donata Berra

Donata Berra nasce nel 1947 a Milano, dove studia letteratura e musicologia; oggi vive a Berna, docente di letteratura italiana, e si occupa di traduzioni dal tedesco (Dürrenmatt, Merz, Zweig). Il suo esordio poetico risale al 1992, quando pubblica a Bellinzona Santi quattro coronati, cui segue nel 1997 Tra terra e cielo, e nel 1999 Maria, di sguincio, addossata a un palo. Nel 2010 è apparso A memoria di mare, che riprende le tematiche fondamentali delle prime raccolte e le delicate Vedute bernesi del 2005. Sono poesie che, nate dall’osservazione della più umile quotidianità (il canto di un gallo, un viaggio in tram, un paesaggio lacustre o marino), la trasfigurano in simbolo, talora ermetico, però mai arbitrario, rinviando a domande esistenziali ricorrenti («la domanda / che ci riguarda»). Le frequenti citazioni che valorizzano i testi, una «biblioteca della memoria» che spazia da Petrarca a von Hofmannsthal, dal Folengo a San Tommaso, contribuiscono a ricostruire in unità armonica il «divino disordine», la disorganicità del mondo che ci attornia.

Motivi ricorrenti della poesia di Berra sono le acque e le morbide luci che impreziosiscono i paesaggi naturali, in notturni raffinati o in assolati meriggi: paesaggi amati, richiamati nel ricordo, che si aprono a visioni metafisiche, facendo rinascere continuamente le domande imprescindibili. Il mare, i fiumi (il Magra a Bocca di Magra, l’Aar a Berna), i laghi svizzeri con la loro malinconica azzurrità rivelano da un lato la fugacità della vita, dall’altro lato una possibilità sempre nuova di ricercarne il senso ultimo e più vero.

A volte è il dialogo con un interlocutore nascosto a incrinare l'incomunicabilità di fondo, rendendo accessibile la formula magica che apre al mistero; mentre il gioco elegante tra spazio immaginario e spazio reale conduce alla costruzione di un universo significativo e intellettualmente appagante.

Un'altra ambivalenza costantemente richiamata è quella tra dimensione orizzontale e verticale: il fascino ambiguo di salpare verso lidi sconosciuti e l’aspirazione a salire verso «cime ineguali», i ponti che si innalzano a scavalcare fiumi e le gole in cui questi scorrono, l’onda che si alza e si abbassa seguendo il suo perenne moto. Così anche i sentimenti che illuminano dall’interno le immagini di questa poetessa rivelano una persistente duplicità: amarezza e allegria, fiducia e disillusione, domande e silenzi, effimero e sempiterno non sono altro che le facce di una medesima realtà, osservata con appassionata empatia, nella convinzione che sia essenziale «non cedere / lasciando l’ultima riva /giocarsi tutto rischiare».

Frati

Andavan compitando per analogie

il mondo e i suoi effetti, loro inclusi

non meno, ché nel chiostro la dogliosa

fabulatoria dell’origo generis

che palpeggiava intorno alla matrice

si producesse nel contorto collo

del mostro inciso dentro al capitello.

 

Torcevano le membra pur sapendo

che la scrittura è germe dell’inconscio

eppure si ostinavan con protervia

nel disegnarli sempre a fargli l’ali.

Scrivevano in inchiostri rossi e d'oro

 

e debolmente rimediavano

al divino disordine.

Ortensie

Il tempo passa, dicevi, resta

l'odore mielato dei rami

al riparo dal sole: l’ombra

delle ortensie azzurre dove

il primo giocare era da te

nascondino, ma qualcuno sempre

si incaricava di svelare me

e che la natura

è refrattaria alla metafisica.

 

Zolfo ci vuole per il blu dei corimbi:

questo so ora, che non voglio

nessuno mi cerchi:

per quel che vale

restar dentro a pensare.

Sommessamente

Non con trombe alte e tese

splende l’annuncio: l’angelo

è meglio raccolga i lembi

della lunga veste,

sieda e riposi.

 

Sommessamente nasce

la voce, solo, se mai, per sottrazione.

[Per rimpiangerlo]

Per rimpiangerlo poi sempre: il luogo

dove tante volte insieme

abbiamo sperato di arrivare

e lì carpire alla voce informe

l’ultima parola. Poi

liberi saremmo

esautorato il cielo: certo

dell’ultima sua parola

più grande e chiara è la finestra

che ben conosco, illuminata

come un cuore nella sera.

 

Quando ho creduto di sapere, infine

ti ho chiamato, ma tu

avevi un altro volto.

[E andando lasciava la nave sul liscio dell'acqua]

E andando lasciava la nave sul liscio dell'acqua
un nastro a ricciolo largo,
allucciolato d'oro,
ricolmo di liquide stelle
inghiottite dall'onda e sempre riaccese,
e spumiglie e fiocchi di mare
emblemi di specchi ritorti
sparenti e riapparsi poi sciolti
in barbagli, in scaglie di luce;

e lasciava, la nave
il lungo profilo del suo lento passare,
e del nostro, più incerto,
a memoria di mare scritta serrata, ma poi
appena stretta la cima alla bitta, la nave
viene solo richiesta di pronta consegna
del pesce pescato
ai camion del ghiaccio.

Questioni. II

Dopo tante maledizioni

 

sapersi persi, non cedere

lasciando l’ultima riva

giocarsi tutto rischiare

compromettere la salvezza

 

esasperati di stare all’oscuro

spingere a fondo la domanda

che ci riguarda

ché di altro non sapremmo chiedere

 

e prendere atto piano piano

di una nota scura

cupa insistente

come di bordone

 

era la voce di Dio che diceva

è niente.

[Come salvarti, dimmelo, cuor mio]

Come salvarti, dimmelo, cuor mio,

quando ti aggraffa lei tra grinfie adunche,

quando si svela a te, che ne vacilli,

odorosa di molli ombre muschiate,

come sottrarti alle sue rose nere?

 

Ma io mi lascio scorrere dal fiume:

ricordi Ofelia? Sposa alla corrente?

Mi lascio risucchiare dalla luna

per sciogliermi, ed entrar nelle tue notti

scendendo a benedirle in raggi d’oro.

[E adesso vieni, entriamo insieme in questo inverno]

E adesso vieni, entriamo insieme in questo inverno,

sarà stagione di abbandoni e reticenze,

guarda: le ombre che credevamo immaginate,

o risospinte ai margini del bosco,

vòltati: avanzano alle spalle.

 

Vieni, lascia scorrere il tuo corpo

dal vento acre di resina e di muschio,

lascia la scabra pelle rilevarsi

alle carezze mie, come fossi lei,

 

quella per cui fiorisce, e sa di cielo,

- dove tu solo sai, e mi conduci –

il fioco fiore giallo d’elicriso.

Bocca di Magra I

Alba sul Magra, a pelo d’onda

tese tra le maglie del sole ancora sbieco

le reti dei rammarichi notturni.

Tratte a ragione poi, poco

è il pescato: alghe

granchiolini spauriti, e sembra argento

qualche misero pesce: da ributtare in acqua.

Bocca di Magra IV

O non è meglio restare accanto al fiume,

dove l’acqua del Magra è più terrigna

e sa il dolce dei boschi, dei muschi

 

qui, non oltre la giostra della foce

che s’incapriccia di sale, ma poi torna,

un giro tra le arselle degli scogli,

un passo d’onda sotto chiglie rosse?

 

Fuori, dove lo sguardo si slontana,

sul grande mare laminato d’oro,

non c’è nessuno a trattenere il giorno,

 

questo giorno che ci lascia

al respiro lento dei navigli.

Bocca di Magra VI

e c’era felicità tra le onde, ma

alla mia domanda

 

si stemperava, svaniva, per poi

riapparire uguale, più al largo

 

un brillìo di specchi, frantumi d’oro,

un’impronta di luce, lontana, sdegnosa…

Vedute bernesi IV

E scendono i sentieri

tra vasi di gerani rosa

tra giochi di bambini

secchielli palloncini strilli

da ridere giù per le altalene, e proprio ora

calma la voce dice "oggi

hai già dato da mangiare al gatto?"

mentre come allora

scorre sontuoso il fiume verso Köln.

Vedute bernesi VII

Insomma lèvati se vuoi uscire

a che serve star dentro sonnecchiando

scendi agli umori, ingaggia marinai

salpa ancor oggi e poi

appena il vento infila

il piancito del ponte e incinge

alla vela di rada una gran pancia

esci, anche a sbalzo, e dillo

dillo questo nome.

[A lei era nota la grazia]

A lei era nota la grazia

era il suo stato naturale

 

sole cangiante mobile

nel paesaggio diseguale delle ore.

 

Portava spavalda le insegne

di un godimento pieno

preesistente e rinnovabile

 

e sembrava ai nostri occhi riarsi

distrattamente percorrere

le soglie della città celeste.

Poesie di Franco Galluzzi

Nato a Codogno nel 1923, Galluzzi crebbe negli ideali di libertà e democrazia, cominciando fin da giovanissimo a distribuire la stampa clandestina antifascista che usciva dalla tipografia del padre e ricevendo nei boschi di Senna Lodigiana le armi da traghettare al di là del Po. Dopo l’8 settembre salì in montagna, aggregandosi alle formazioni partigiane in Valdossola, e prese parte a vari combattimenti contro i nazifascisti. Tornato a Codogno nell’aprile del ‘45 partecipò attivamente all’insurrezione locale: ma in quegli stessi giorni si ammalò e morì il 2 maggio.

Solo nel 2004 i fogli dattiloscritti contenenti le sue poesie sono stati editi col titolo Se potessi… a cura di Gennaro Carbone, Annalisa Degradi e Isabella Ottobelli per i «Quaderni dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea». Ne emerge il ritratto di un lettore di poesia straordinariamente maturo per l’età, che accanto ai grandi della tradizione conosce e apprezza la poesia nuova di D’Annunzio, Gozzano, Ungaretti, Montale; e che sa distaccarsi anche da questi modelli per proporre uno stile personale, asciutto e incisivo, ricco di improvvisi scarti logici che provocano nel lettore un forte effetto di straniamento. Galluzzi sa investigare in questi suoi testi la profondità della propria inquietudine, nella dolorosa consapevolezza dell’impossibilità di una comunicazione profonda: il che però non lo spinge alla rinuncia o all’afasia, ma fa scaturire sempre nuovi interrogativi e ulteriori percorsi di ricerca.

I temi che egli affronta spaziano dall’amore, vissuto con trepidazione e inquietudine, all’impegno politico, alla riflessione sulla morte, che per lui non ha nulla di tragico o angoscioso, ma è vissuta con la levità del ragazzo che affronta serenamente il suo futuro, consapevole che in tal modo «sembrerà più facile / la morte». Così in un intenso testo egli può affermare: «Fuggo / per diventare finalmente un uomo»: è la fuga dal disimpegno e dalla tranquilla serenità quotidiana, per sfidare con matura consapevolezza l’impegno decisivo.



Il nome

Qual è il tuo nome?

Io non lo so ancora.

E l’ho cercato tanto in mezzo a quelli

che vengono alla bocca d’improvviso,

quando il cuore ha bisogno

di dare una sua forma,

una sua forma intima ed amica

al fuggente fantasma d’una donna.

Ne vorrei uno che accogliesse

in un alito

la musica di boschi risonanti,

echeggianti nell’ombra,

l’amarezza smisurata e ondosa

del nostro padre il mare,

il profumo del fieno

che nel meriggio è ardente

e nella sera

fresco come le guance tue.

Vorrei un nome che s’attorcigliasse

al tuo corpo,

formando un tutto unico,

un nome breve,

perché io possa dirlo

tante volte di più.

Se tu sapessi

T’ho amata da lontano, tenuamente,

per non rompere il filo che trattiene

il mio sognare al tuo sognare assente,

perduto dietro Quello che non viene.


T’ho seguita pregando sulla porta

chiusa della sua casa abbandonata,

quando guardavi la facciata morta,

prona la dolce testa sconsolata.


Se tu sapessi come anch’io ho vissuto

il tuo amore per Lui, che se n’è andato,

ch’è tornato nell’ombra, sconosciuto,


senza sapere che non l’hai scordato.

Se tu sapessi come anch’io ho creduto

nel tuo sgomento grande, desolato.

Amiamoci dunque per questo:

Amiamoci dunque per questo:

per potere, domani,

aver la squisita tristezza

d’abbandonarci.


Amiamoci

per saper che significa

dopo,

andare divisi,

conoscer la buia dolcezza

dell’ultima parola.


Addio...

Le mani rivivono sole,

al contatto,

lo strano romanzo.

E noi ci guardiamo:

un attimo, oh! un attimo ancora.

Andarsene

Andarsene, andarsene lontano

e dire a chi c’incontra, a chi ci guarda

senza più riconoscerci: “Io fuggo

per diventare finalmente un uomo.

Fuggo per non amare più il profumo

femmineo della notte ed il notturno

calore della donna. Fuggo infine

perché il mondo soltanto è la mia casa

e l’orizzonte il mio traguardo. Vado

dove mille esistenze stanno ansiose

ad aspettare l’anima mia, vado

dove il coraggio spezza ogni confine

tra la vita e il romanzo. Dico addio

a voi restanti”. E poi tranquillamente

continuare la strada.

Un’altr’alba

Compagno, è già l’alba.

È già l’ora d’un’altra fatica.

E tu maledici ogni giorno

che ancora

rinnova la strada nemica:

e tu

che la vita degli altri

hai vissuto

nel sogno recente,

rivolgi l’estremo saluto

a ciò che per niente

amasti stanotte.


Compagno.

Allaccia le cinghie,

riprendi il tuo sacco.

Ritorna a scordare

le cose negate di ieri,

ritrova i pensieri

irrequieti

che portan lontano.


Compagno, compagno.

Cos’è

che ti fa meno forte:

è forte il sapere che morte

si chiama

la sosta futura?

È forse una nuova paura

che il cuore ti serra

e i passi t’acquieta?

È forse la meta che oggi

più folle ti sembra?


Compagno, rimembra

perché cominciasti

l’andare:

ricorda quel mondo che odiasti,

le immagini amare

che un giorno

ti spinsero fuori

dagli uomini.


Compagno: ricorda e prosegui.

Quando saremo vecchi

Certo

ci accorgeremo a un tratto

d’esser vecchi.

Sarà come se sfatto

dentro di noi

si fosse qualche cosa

che pareva durevole

perché ancora incompiuto,

qualcosa che pareva

non andasse perduto

perché non si sapeva come, quando

lo si era trovato.

Amica, ti domando

che mai faremo allora.

Ricorderemo? E cosa?

Che momenti saran da ripensare

nel poco tempo

della sosta estrema?

Che ore rivivremo dal groviglio

di un passato fuggente,

faticoso,

che negli occhi

non ci ha lasciato niente,

se non la voglia ansiosa

di poterli serrare?

Guarderemo negli altri

quelli che sorgeranno,

la verdicante, gaia giovinezza

che noi non ci accorgemmo

d’aver avuto in mano,

quando la mano tendevamo aperta

a chiedere di più?

Come certa

sembrerà la disfatta!

E l’inutile strada che per tanto,

amando, disperando,

maledicendo

percorremmo a fianco,

ci parrà così sciocca,

così breve,

da lasciarci capire finalmente

cos’è l’umanità!

Forse non rimarrà

che chiedere un’ultima volta

cos’era

la smania di giungere,

se alla meta

portiamo un cuore stanco,

un’anima scialba che soltanto

desidera tornare.

Davanti alla vecchiezza

forse amara

ci sembrerà più facile

la morte…


Ma allora cos’è questa morte che tra le crepe della vita ci guarda cogli occhi d’un’amante respinta? Ce la sentiamo nelle pupille, qualche volta; qualche altra nei sensi che la sua terribile inconsistenza affila, scarna. Guardiamo a lei come si guarda al fondo d’un orrido e ci corre per il corpo lo stesso raccapriccio che ci fa ritrarre, lo stesso inverosimile fascino che ci tiene inchiodati a fissare. La morte è la sola verità che l’uomo non può permettersi d’ignorare.”

(Fine aprile 1945)


Cristo Re

LETTURE: Dn 7,13-14; Sal 92; Ap 1,5-8; Gv 18,33-37


«Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto»: così il profeta Daniele ci presenta il Figlio dell’uomo, il Messia venturo che tutto Israele attendeva. È un sovrano onnipotente, destinatario di un potere immenso e indistruttibile, re di un regno che non vedrà mai la decadenza.

Ma il re che Gesù incarna è invece uno che «ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno» (Ap 1, 5-6): siamo noi dunque a formare il suo Regno, noi, gli uomini da Lui amati! E questo regno è un regno d’amore e di servizio, non di potere e di sopraffazione.

Può apparire anacronistico il testo del Vangelo odierno in un mondo dove il potere è ricercato con bramosia, con cinismo. E anche gli stessi apostoli evidentemente non se ne rendevano conto, quando discutevano su chi fosse il più grande; ma il richiamo che Gesù fa a loro è chiaro: «per voi non dev'essere così; anzi il più grande tra di voi sia come il più piccolo, e chi governa come colui che serve» (Lc 22,26). È il servizio fraterno il nucleo fondante del regno che Dio vuole attuare nel mondo; è un re che serve quello che oggi celebriamo nella liturgia; un uomo nella sua debolezza estrema, uno che «ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie» (Mt 8,17); un re che ci invita a cambiare i nostri criteri di giudizio; un re che viene a dirci che regnare è in realtà servire, che solo chi si pone al servizio dei fratelli può entrare nel regno del Padre suo. Perché per primo è stato proprio il Re dell’universo a farsi “carne”, cioè povertà assoluta, debolezza, tenerezza di creatura; ha rifiutato lo sfarzo e la ricchezza dei potenti per rivelarsi ai piccoli; ha scelto la fragilità degli uomini perché è lì che vuole abitare; ha deciso di rivelarsi nel nascondimento, perché il suo regno non è di questo mondo.

Paradossalmente però la sua scelta di debolezza diventa per Pilato (e forse per noi) un ostacolo a credere alla vera natura del Cristo. Il dialogo fra i due mostra l’incomprensione totale del governatore, che ubbidisce, senza rendersene nemmeno conto, alle logiche perverse della politica, alle mire violente del Sinedrio, condannando un uomo che pure ritiene innocente. Pilato cerca il dialogo, ma non è disposto ad ascoltare: per questo finisce per non capire niente di Gesù, né del senso profondo del suo essere re. Il senso vero della regalità del Cristo è dare testimonianza alla verità: la verità del Padre, il senso vero della vita e della morte, la verità del male che costituisce sempre per noi un interrogativo irrisolto. Solo accettando la regalità di Cristo come debolezza estrema, sapremo accettare la nostra debolezza che ci tormenta. Solo regnando con lui nel servire, sapremo riscoprire che il servizio è l’unico modo di essere «eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rom 8,17).

Così allora preghiamo, con le parole della Colletta della Messa odierna: «illumina il nostro spirito, Signore, perché comprendiamo che servire è regnare, e con la vita donata ai fratelli confessiamo la nostra fedeltà al Cristo, primogenito dei morti e dominatore di tutti i potenti della terra».

Giusy Quarenghi

Giusi Quarenghi è nata nel 1951 a Sottochiesa, una piccola frazione del comune di Taleggio; della valle in cui è nata ha detto: «La mia valle era la mia isola». Ma da quest’isola è uscita una straordinaria vocazione di scrittrice per l’infanzia (e non solo): racconti, storielle, filastrocche, testi di divulgazione, sceneggiature, romanzi, fiabe, ma anche cinema, cartoni animati, fumetti. Nel 2016 ha anche proposto i Salmi "per voce di bambino". Ogni sorta di scrittura perché, come lei stessa narra, «la lettura era una chiave che mi permetteva di aprire ogni parola che fosse scritta. Da lì mi sono anche rassegnata alla scrittura. Leggendo, frequentando ed amando le storie degli altri, cominciano a venirti in mente le tue. E l’unico modo per fermarle è quello di scriverle».

Poi nel ‘99 è la volta della prima raccolta di poesie, Ho incontrato l’inverno, seguita nel 2001 da Nota di passaggio, “poesia al femminile”, e nel 2006 da Tiramore. L’ultima silloge è recentissima, del 2017, e si intitola Basuràda. Come spiega l’autrice «Bas-ura è l'ora bassa a ridosso del tramonto, l'allargarsi quasi improvviso del giorno in una luce vasta e stillante, come di rugiada; così nella sera si insinua un sentimento d’aurora, chiasmo non solo temporale, eversivo e struggente. Quanta più luce, e che luce, nell’imminenza della notte». È una luce reale e nello stesso tempo metafisica quella che l’autrice ammira incantata e che ci offre come spunto di meditazione, per farci contemplare il mondo con occhi di bambino e contemporaneamente di adulto. È luce che si alterna serenamente con il buio, in un eterno e tranquillizzante fluire del tempo. E da questo avvicendarsi di luce e oscurità scaturisce una francescana «laus creaturarum» che si reitera e diffrange nella «guancia dell’aria» e nella bocca della luce, nel cielo e negli alberi, nella pioggia e nel tramonto, nel silenzio e nei «respiri trasparenti della neve», nel «piccolo di rapace» e nella «polvere di pietra», nella «bacca rossa» dell’infanzia e nel tiglio che «domani sarà miele», nel gelsomino che vive «in un vuoto del muro di pietre».

Accanto alla meditazione sulla serenità della natura vi è spazio anche per l’agonia e la morte della madre, vissuta però non come un dramma insanabile, ma come un evolversi naturale imprescindibile, un esaurirsi «a goccia a goccia», «fiato / su fiato», «di poco in poco dal meno al niente». E sembra quasi che un’altra madre le si affianchi, nel dialogo muto tra l’angelo e l’annunciata, nella «casa di pane e di pietre» dove «Dio ha scelto / di non sapere», ha scelto di cogliere «il filo del labirinto / di ogni creatura viva». È una «lama d’amore» che si insinua nel «cuore di luce piena», tra il buio e la luce, tra l’ansia e la pace, tra il dolore e la gioia.


Aspetta la notte la luce

che apre al cielo il respiro

Bianca silente soave

cammina gelata sulle punte

dei rami tra i sassi e le stelle

Infante inarcata rotonda

dal basso illumina il cielo

è la neve luce di terra



Lode alla guancia dell’aria alla bocca

di luce ai suoi angoli tondi

che non feriscono mai Lode

al cielo che la guarda agli alberi

che le crescono di fronte alle foglie neonate

e già ragazze segrete Lode

alla pioggia al tormento che il davanzale

sostiene Lode al muro

alle sue frasi di pietra al gatto rosso

muezzin del tramonto Lode

al silenzio che mi lascia il suo

corpo ai respiri trasparenti della neve

appena stata



Questo autunno del bosco è lo svolo

della voce femmina

della terra madre

che non so cosa pensa di notte

e i desideri cela

finché al sole pur poco

li svela



Ci vuole coraggio per essere foglie

e attenzione

al tempo del cominciare

e del finire

quando il vento

pare più forte ma è solo

che è venuto il momento



A goccia a goccia mia madre muore fiato

su fiato sguardo su sguardo mia madre

muore di poco in poco dal meno al niente

mia madre muore in stretta economia

come faceva con ogni cosa buona perché

durasse ancora un po’ solo con l’acqua

si lasciava andare

In piccoli respiri quieti a mano

a mano si sfila dal suo corpo ritrova

l’insieme vuoto e si riconsegna

anche nella morte madre



Amarti figlio mio

è amare il tuo segreto

dove tu sei segreto

segreto persino a te

segreto a me che t’amo

segreto perché ti amo



Posso fare del mio cuore schegge

grumi e polvere di pietra posso

buttarlo ai cani vederlo fare a fette

sul marmo del macello

negarlo sotterrarlo Ma non

sopporterò il solo farsi avanti

dell’ombra del pensiero

che è questo che tu vuoi

uccidermi a patto

che io non muoia mai



L’ho ritrovata la bacca rossa

della mia infanzia mortale

la polpa scarsa il nocciolo

importante insiste a lungo asprigna

e legante Poi di colpo il rosso si fa

scuro il gusto pieno maturo Sulla pelle

ride e brucia la carezza delle foglie

stropicciate di nascosto

L’infanzia non muore giura

la bacca di cornàl mano sul bosco



Non temere Maria

ho arrotolato le ali lasciato

il paradiso Era troppo per me

Voglio fermarmi qui

nella tua casa di pane e di pietre

nella tua voce bianca

come polpa di castagno Non temere

Maria sono

un angelo portoghese

volo senza annunci senza carte d’imbarco Sono angelo

zingaro non temere

Maria le mie impronte sono ali

Me le prenderanno

per sapere chi sono le prenderanno

Non servirà non temere Maria

nemmeno loro sapranno

quello che persino Dio ha scelto

di non sapere

il piccolo infinito

il filo del labirinto

di ogni creatura viva Non temere

Maria Sono l’angelo degli elementi respiro

terra cammino aria bevo fuoco morirò

acqua mio testimone il legno

di cicatrici e fiori


In braccio alla tua ombra

ascolto il tuo respiro

partitura incisa cantata

con lama d’amore

e abbasso gli occhi

a cercare il cielo


Perché un angelo?

Custodisce i sogni

E la spirale?

È impronta del tempo profondo

E le ali chiuse?

Sono arrivato

dove volevo

dove sono voluto



Temo le sere di luce le sento

bussare alla porta sbarrata

già nel pomeriggio hanno provato le nocche

ma il giorno ha altro da fare e poi

muore la veste lucente gli scivola via

dalle spalle dal collo dai fianchi capaci

resta la sera la sento impazzire la sera da sola

annodo le mani raccolgo la pelle le nego

illusione che resti al di qua del mattino

Si tenga a quello che teme di più

alla splendida notte



Ho mandato il tuo corpo a memoria

ripasso le frasi della tua pelle le virgole

delle tue ossa i punti dove si fermano

i piedi si appoggiano i fianchi

faccio scorta della curva delle orecchie

del tondo delle unghie di ogni piega d’odore

del ti tocco e del mi tocchi

Che tu mi manchi

è il mio ultimo amore



Il gelsomino

bianco messo a dimora

con tutte le cure è morto vive

invece in un vuoto del muro di pietre

il seme sfuggito anche al vento

randagio caparbio fratello

capace di farsi bastare ogni

niente Lo nutre il desiderio

quello che gli manca



Non vedo fin là

ma adagio lo so ti ritrovo sull’acqua

distesa nella luce dei sassi in grembo

alla barca leggera Manca poco alla riva



Vorranno pur dire qualcosa queste foglie

così lente a morire che insistono

a stare sui rami d’inverno i viali

in città ricolmi di gialli gloriosi di ruggini

caldi il cielo che non trova dove infilarsi

le chiome compatte che il vento non smaglia

la pioggia non buca vorranno pur dirmi

qualcosa



Lo ripongo con cura ogni sera

a portata di mano ma lo ripongo

non lo porto con me lo ripongo

col suo carico buio

Al mattino ritrovo ogni cosa

l’orologio le fedi gli occhiali

le parole i vólti l’attesa il cuore

no non il cuore

non là dove l’avevo lasciato

con il suo carico buio


Poesie di Joyce Lussu

Vent’anni fa moriva a Roma all’età di 86 anni Gioconda Paleotti, più nota come Joyce Lussu, moglie in seconde nozze del grande antifascista sardo Emilio Lussu. E forse in questo caso la fama del marito ha in parte danneggiato la donna, nonostante sia stata figura decisamente significativa sia in campo politico (antifascista, partigiana, medaglia d'argento al valor militare, capitano nelle brigate “Giustizia e Libertà”, attiva in organizzazioni internazionali), sia in campo letterario come saggista, scrittrice, poeta, traduttrice. D’altronde lei stessa affermava, con una buona dose di amarezza: “Le donne non hanno un proprio nome. Le donne devono sempre portare il nome di un uomo, o è il padre o è il marito”. Oggi è giunto il momento di restituire a questa donna straordinaria il posto che le compete nel panorama letterario del Novecento.

La poesia è stata per lei un tentativo riuscito di utilizzare questo che lei considerava un linguaggio privilegiato per svelare il senso ultimo della realtà: è stata una chiave di lettura della storia, un modo per vincere la componente di casualità sempre presente nell’esistenza umana. D’altronde il titolo stesso della sua raccolta più importante, Inventario delle cose certe (1998), indica proprio la sua scelta di inventariare, di registrare i fatti per sviscerarne la dimensione profetica, proponendola poi in un linguaggio a tutti comprensibile, come le aveva insegnato il grande poeta turco Nazim Hikmet, da lei tradotto in italiano fin dal 1965.

Nel volume citato troviamo le sue poesie giovanili, già celebrate a suo tempo da Croce, accanto a poesie più recenti, che trattano tematiche d’amore e di genere, politiche e “partigiane”: un caleidoscopio di argomenti unificati dalla sottile vena ironica della Lussu (“la maniera migliore di vivere – diceva – è quella di non prendersi troppo sul serio”), ma anche dalla profondità della riflessione che ne scaturisce. Così la definizione sbarazzina della poesia come semplici “parole tracciate in righe diseguali” nasconde il profondo rispetto per il ruolo della parola poetica; la fantasmagorica visione della luna “rotta in cinque pezzi che galleggiano nel cielo” rinvia agli intricati pensieri delle donne; il mancato successo rinfacciatole da un amico si trasforma in una coraggiosa affermazione di sé, in cammino “verso l’imprevedibile orizzonte”. E ancora si vedano le coraggiose poesie per la liberazione della donna, le trasparenti accuse al maschilismo imperante, l’eroica certezza che la vita sia un viaggio di ricerca che non finisce mai.

Grande pittrice di paesaggi e occasioni, di corpi e di ambienti, Joyce Lussu ha saputo collocare la sua contemplazione nell’ambito di un pensiero forte, che osa dire il bello e il peggio del mondo in cui vive.

***

Che cos’è la poesia?
Non è un problema
difficile da risolvere.
Basta andare in giro con un pezzo di carta
su cui sono tracciate parole
in righe diseguali
e chiedere al primo che passa
scusi, legga, le sembra una poesia?
Se il primo passante
è recalcitrante
si prova con un altro
e alla fine magari con qualche parente
vicino o lontano
con qualche conoscente o amico devoto.
Uno si trova sempre
che dice: è una poesia
certo, che vuoi che sia,
è bella, non c’è male.
Dopo questa verifica
si può andare a riempire un altro foglio
di righe disuguali
e cominciare da capo.

***

La poesia
è una bugia
che sembra più vera del vero
più vera della politica
della psicologia
e anche della matematica
è una menzogna
detta con estrema convinzione
e passione
uno specchio trasparente
fragilissimo e deformante
che appare solido come la tavola
cui s’aggrappa il naufrago
un catarifrangente
notturno che brilla solo se lo illumini coi fari
e subito sparisce nel buio.

***

La luna si è rotta.
Si è rotta in cinque pezzi che galleggiano nel cielo
squallidamente
come cinque cocci di scodella.
Era una luna piena e luminosa
Che aveva un’aria abbastanza felice.

Lì per lì ho creduto che i cosmonauti e i satelliti
artificiali l’avessero offesa in qualche modo.
Ma poi ho capito ch’era tutta colpa mia.
La guardavo fissamente con pensieri tristissimi e scomodi
e tutt’a un tratto – trac – si è rotta in cinque pezzi
quasi senza rumore.

Certo sono i miei pensieri che l’hanno urtata
in un momento in cui si sentiva particolarmente fragile.
Questi pensieri delle donne liberate sono una cosa complicata
e la luna ch’è tonda e semplice ci si trova male.

***

Continua per te la fatica diurna
di ieri di oggi
pesante è la brocca che porti dal fonte
pesante il cammino in salita
dai ciottoli tondi
pesante la cesta di gialla farina
che stacci
pesanti quei tuoi fratelli aggrappati
ai tuoi bracci
eppure ti senti leggera
leggera
i gesti che compi
son d’oggi di ieri
le stesse parole
tu dici
non muta la piega del viso abbronzato
dal sole spietato
nel cavo del raro sorriso
le mani tue dure operose
non hanno mai posa
eppure sei lieve sei lieve
sei nuova sei nuova
sei come una nuvola rosa
sospesa nel cielo
perché quel ragazzo ricciuto
ti ha guardato e sorriso

***

Senti, sia come sia, ti confesso
che non m’interesso molto al successo
ma appassionatamente al succede
e al succederà.
Il successo è un paracarro
una pietra miliare
che segna il cammino già fatto.
Ma quanto più bello il cammino ancora da fare
la strada da percorrere, il ponte
da traversare
verso l’imprevedibile orizzonte
e la sorpresa del domani
che hai costruito anche tu…”

***

Ricominciamo l’inventario
senza farmi mettere in crisi
da chi mi dimostra che tutto quel che dico
è scandalosamente approssimativo
e che faccio del vocabolario
un uso piatto e abborracciato.
Posso usare soltanto parole
tra le quali mi sento a mio agio.
Posso soltanto parlare.
Perciò parlo.

***

Chi ha detto che la vita è breve?
Non è vero niente
La vita è lunga quanto le nostre azioni
generose
quanto i nostri pensieri
intelligenti
quanto i nostri sentimenti
disinteressatamente umani.
La vita
è infinita.

***

C’è un paio di scarpette rosse

numero ventiquattro

quasi nuove:

sulla suola interna si vede

ancora la marca di fabbrica

Schulze Monaco

c’è un paio di scarpette rosse

in cima a un mucchio

di scarpette infantili

a Buchenwald

più in là c’è un mucchio di riccioli biondi

di ciocche nere e castane

a Buchenwald

servivano a far coperte per i soldati

non si sprecava nulla

e i bimbi li spogliavano e li radevano

prima di spingerli nelle camere a gas

c’è un paio di scarpette rosse

di scarpette rosse per la domenica

a Buchenwald

erano di un bimbo di tre anni

forse di tre anni e mezzo

chi sa di che colore erano gli occhi

bruciati nei forni

ma il suo pianto

lo possiamo immaginare

si sa come piangono i bambini

anche i suoi piedini

li possiamo immaginare

scarpa numero ventiquattro

per l’eternità

perché i piedini dei bambini morti

non crescono

c’è un paio di scarpette rosse

a Buchenwald

quasi nuove

perché i piedini dei bambini morti

non consumano le suole.

***

Vorrei sapere quando ti ho perso

in quale data in che momento

forse quel martedì ch’ero triste

o un mese prima d’averti visto

forse quella domenica pomeriggio

ch’ero allegra e parlavo troppo di me

forse in una data remota

inesplicabile e ignota

come il tre marzo del millenovecentotré

Vorrei sapere dove ti ho perso

in che punto preciso della città

forse davanti ad un semaforo

forse in un bar o in una stanza

forse dentro ad un sorriso

forse lungo una lacrima

che colava giù per una guancia

forse tra le aureole gialle dei lampadari

sospese nella nebbia dei viali.

Vorrei sapere perché ti ho perso

il motivo la necessità dell’errore

forse perché non c’è tempo

o perché c’è stato l’inverno

e adesso viene la primavera

ma con tanto poco sole

tra i muri d’acciaio e cemento

che tremano per il rumore

delle macchine, delle fabbriche, degli ascensori.

Ma non voglio sapere che ti ho perso

che ti ho perso e dove e quando e perché.


Poesie di Chandra Candiani

Chandra Livia Candiani, poetessa milanese di origini russe, ha pubblicato finora le raccolte Io con vestito leggero (2005), La nave di nebbia (2005), La porta (2006), La bambina pugile ovvero la precisione dell'amore (2014), Bevendo il tè con i morti (2015) e Fatti vivo (Einaudi 2017). I riferimenti culturali cui attinge sono per lo più estranei alla tradizione italiana, spaziando dai poeti russi a quelli orientali, da Kabir a Tagore, da John Donne a Emily Emily Dickinson a Rilke. La sua visione del mondo, che indubbiamente risente soprattutto degli insegnamenti buddisti, da un lato la porta a rammaricarsi per l’insensibilità dell’uomo nei confronti della natura e dei suoi simili, dall’altro lato le permette di cogliere gli aspetti più nascosti degli oggetti, che divengono nella sua poesia presenze misteriose quasi umanizzate.

Alla base della sua concezione del mondo sta la capacità di «mantenere il canale della parola libero per altri ascolti, per altre visite, [la capacità] di ascoltare l’essenziale»: fondamentale è infatti per lei salvare la parola in via d’estinzione e offrire agli uomini una lettura del reale che vada oltre il puro dato fisico, perché «poesia è conoscenza e passione» e le parole sono «segni sulla pelle del mondo». Anche il dolore interpella drammaticamente la Candiani («Il dolore degli altri / non mi sta in mano / e nemmeno in gola / più che altro sta nel petto / nella sua memoria / luogo schivo / che fa stazione / che scartavetra le fughe»), portandola a ricercare una comunanza di intenti e una consonanza di sentimenti con l’umanità intera.

La raccolta più significativa è certamente La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore: un canzoniere che, fin dal titolo ossimorico, scandisce le tappe dell’amore in tutte le sue sfumature, dalle più tenere alle più spietate, nella quotidianità e nell’eccezionalità della vita, tra persone umane e oggetti amati, oltre ogni dogma e ideologia precostituita. La “precisione” di cui parla il titolo è in realtà un’utopia, impossibile da raggiungere nella sua pienezza, perché l’amore è sconfinato, «la [sua] misura esatta è l’infinito».

***

La vita nuova
arriva taciturna
dentro la vecchia vita
arriva come una morte
uno schianto
qualcuno che spintona così forte
un crollo.
È una scrittura tanto precisa
e netta da non lasciare dubbi
né sfumature di senso eppure
non dà direzioni né mete.
La vita nuova irrompe
come un vecchio che cade
sul ghiaccio, un pensiero
davanti a un muro, la
sirena di un’ambulanza.
Non ci sono feriti
né annunci di sciagura
solo noi da convincere
a lasciar perdere il miraggio
di una vita rettilinea, di un
orizzonte, lasciarsi curvare,
piegare alla tenerezza
delle anse del destino.
La vita nuova
è come un grande tuono
sbriciolato
poi a poco a poco
l’erba si china
sotto la pioggia
la prende
la beve.

***

Dunque c’è la luce
e ogni foglia è attaccata al ramo
con esatto amore
e ogni foglia in orario
lascia il ramo
con audace resa
e ogni uscire dalla soglia
del corpo è ricevuto
con unanime benvenuto
da quella scienza della gioia
che proprio ora proprio qui
riempie il foglio di ghirigori
per dirti che dunque
la luce c’è.

***

Esiste la musica.
Esiste proprio,

come lenzuolo lampada
orologio e casa,
come nuvola,
quel suo disumano orto
d’intenzione
di ascoltare l’anima
esiste. Come domino
di note che si crollano addosso e fanno
insieme. Insieme si fanno, e sono fatte
musica. Qualcosa che abbiamo
perduto o dimenticato
o rotto forse
per mani troppo grevi, qualcosa
di spezzato. Un silenzio eseguito
un’anima di ghiaccio
conservata sotto sale.
Ma cosa cosa ho perduto
io, mentre ti ascolto
cara faccia del nulla
caro amore senza direzione
care ossa: grazie grazie
c’è stato qualcuno
prima di me. È ora
di affrontare la musica.

***

Io aspetto
come il melo
aspetta i fiori –
suoi –
e non li sa
puntuali
ma li fa,
simili
non identici
all’anno passato.
Li fa precisi
e baciati nel legno
da luce e acqua
da desiderio
senza chi.
Sorrido sotto il noce
ai suoi occhi tanti
che mi studino bene
la tessitura dei capelli
e ne facciano versi
di merlo e di vespa
di acuti
aghi di pino
e betulla appena sveglia.
Non so chi sono
ho perso senso
e bussola privata
ma obbedisco
a una legge
di fioritura
a un comando precipitoso
verso luce
spalancata.

Come andare al tempio,
come un lago tranquillo
le mani senza offerte
tranne quello che hai sfamato
diventato respiro
bruma tra i capelli
e preparare parole povere
snocciolate
via via che la porta
si avvicina?
Come andare al tempio,
furiosi e famelici
con il sangue che bussa
insieme agli annegati,
con le mani zuppe
di lacrime degli altri senza faccia,
con i sogni degli animali
che non sanno di nascere
crescono schiodati dalla terra
per sfamare i sazi?
Come andare al tempio,
saltellando o strisciando
stanchi, stanchi
di pregare silenzio e trovare
solo nomi abbandonati
voci scucite?
Come girare le spalle al tempio
e tornare lentamente
verso casa e ogni passo
farlo santo appropriato
e insieme incompetente,
ogni respiro accompagnarlo
precisamente
e poi cadere a terra come ammainati
e tenere la propria mano
e dirsi eccomi qui
piccola come un pulviscolo
eccomi spazzata via
alla domanda schietta:
briciola che ha paura del pane
è la morte?

***

L’amore è diverso
da quello che credevo,
più vicino a un’ape operaia
a un tessitore
che a un acrobata ubriaco,
più simile a un mestiere
che a un sentire.
Io amavo
un po’ con la memoria astrale
e un po’ con giustizia poetica,
ma l’amore
è più vicino a una scienza
che a una poesia,
ha delle sue regole di risonanza
e altre di respingenza,
ha angoli di incidenza
per profili alari e luce,
ma non ha regole per il buio
e l’assenza di ali.
L’amore è molto simile
all’insonnia,
non devi soffrirla
solo ospitarla,
lasciare che ti squassi
faccia di te un sistema nervoso
senza isolamento,
una corda tesa
di strumento musicale ignoto.
Essere temi musicali
non è una vocazione
ma una disciplina di spoliazione,
è farsi ossi
limati
dalle onde
goccia che si disfa
nel galoppante mare.

***

Siamo nuvole
i nomi complicano la tessitura
ma siamo nuvole,
notturne mattiniere
dipende,
oltraggiose spaurite
candide sprezzanti,
cavalieri e cavalcature
bastimenti e animali
siamo pronte
a dissolverci con fierezza
in quel tutto pacatissimo
del cielo ultimo
che ci affida il mondo.
Siamo nuvole
cambiamo vita di frequente
lì, sopra il disordine della realtà
il fondo
sereno delle cose,
la pioggia
la sete.

Poesie di Gianmario Lucini

Il 27 ottobre di cinque anni fa moriva Gianmario Lucini. Poeta, saggista, “umanista”, editore, blogger e soprattutto - come amava definirsi - “costruttore di pace”, era nato a Sondrio nel 1953, si era laureato in Scienze dell’Educazione e aveva lavorato come formatore in diverse città, da Roma a Como a Bolzano. Grande merito fu quello di aver organizzato un Premio di poesia intitolato a David Maria Turoldo, il cui ricavato era interamente devoluto a Paesi del Terzo Mondo, cui dedicò energie e attenzione particolare. Vasta la sua produzione, che spazia da racconti brevi ad antologie di poeti, da saggi critici a raccolte poetiche, tra le quali vanno ricordate almeno Allegro moderato (2001), Sapienziali (2011), Krisis (2012) e Istruzioni per la notte (2015).

Le “istruzioni” dell’ultima raccolta sono in realtà mappe di un mondo interiore, tracciati di un difficile itinerario del poeta alla conquista del senso, in un viaggio ascendente che lo porta dalle città di pianura alle vette delle montagne amate. Lucini ritiene che l’uomo per raggiungere la pienezza di vita debba farsi viaggiatore a tempo pieno, senza per questo perdere la capacità di fermarsi a riflettere, a fare memoria del proprio passato: solo così il viaggio può divenire ansia di conoscenza, di sé e dell’altro, desiderio mai appagato, perché immensa è la libertà che si dispiega davanti a chi è perennemente in cammino.

Quella di Lucini è dunque una poesia di testimonianza, di attenzione per l’uomo, per tutto ciò che riguarda l’uomo, anche se questi è spesso “l’essere che fabbrica / il suo inferno ubriaco di luce”, artefice di violenze al fratello e alla Terra stessa che lo nutre: il suo riscatto può nascere allora solo dall’appassionata ricerca di un mondo futuro fatto non di brama di potere e di conquista, ma di povertà e fragilità esibite senza pudore. Un mondo che Lucini vorrebbe ricalcasse le orme della Chiesa primitiva, povera e accogliente. Un mondo dove le presenze animali e inanimate spesso si antepongono a quelle umane, disegnando per l’umanità un cammino di purificazione e di rinascita. Un mondo dove nessuno deve essere lasciato indietro, perché “fino a quando / non arrivi anche l’ultimo in vetta / nessuno può pensare d’esserci arrivato / per davvero”.

Croci sulle alture

Ci sono croci sui monti a proteggere le valli

vincoli di rami che incidono l’azzurro

nell’ocra e nei gialli dell’autunno;

stanno lì a vegliare

il passo di chi risale e d’inverno

non le scalza la bufera.


Sono vecchi anacoreti intenti a meditare

le sorti del mondo.

E soltanto il camoscio quando passa

si ferma a pregare.

***

Hai mai veduto il passero meditare?

se ne sta sul davanzale, proteso

sull’abisso come a contemplare

davanti a sé il mare dei prati, l’inatteso

sole marzolino che a vita lo richiama;

 

o forse ascolta quell’adagio mozartiano

che da oltre il mistero pare ravvivare

di toni più vivi il giallo e il verde

di fine inverno.   Che pensiero

misterioso può essere il pensare d’un passero,

rabbuffate le piume al primo vento

che lo punge; e che strano sentimento

m’incute il vederlo sulla pietra

nuda nell’aria appena stemprata

senza più miche di pane – poi che, avanti, in breve

una famelica truppa tutto ha divorato.

 

È come la nottola della filosofia

che giunge dopo la festa del giorno,

ristà, dice e non dice

ma non se ne va via...

***

Le parole che scrivo sembrano ammiccare

beffarsi di me, mutare

pelle uscendo dalla penna

strisciare di lato dal foglio troppo angusto

troppo proteso sull’abisso

che tutto inghiotte.

    

E si dibattono nell’esile infinito

di segno accosto a segno che tradisce

quell’ansia di conformità

che ci rende fratelli nella colpa.

    

Siamo prede immobili, trafitti

da un veleno che ci paralizza

ma ci commuove l’attimo che fugge

e pagheremmo tesori di lacrime

per ritrovare la notte.

     

La follia del giorno ci distoglie

squassandoci con una risata, mentre

poco lontano accompagnano un feretro

fra urla di donne e salve di proiettili.

Poesia della rosa

Cammini nel sole nuovo dell’estate;

ti vedi camminare corrucciato

fra aliene strade alienato.  La vita

- pensi – è scontento che si espia

ruga dopo ruga, pazzia per pazzia

sempre correndo senza nulla fare.

   

E intanto il profumo di rose da un viale

ti distoglie; lo sguardo sollevi

dal selciato morto, dai rifiuti sparsi

d’una civiltà finita – seguiteranno

altri passi a camminare; ma intanto

il gioco è scoperto, palese l’inganno.


***

Liberami dunque dal tuo pianto:

non ti posso più ascoltare:

è una pena lasciarti sulla soglia

spiegare a me stesso la fuga in avanti

che m'assilla

   

- già sono col cuore proteso

oltre la morte e nel presente brucio

falena per troppa smania di luce.

  

Sei come vento che lamenta inconsolabile

vento che si leva e s'addormenta

quando nidiate pigolano a sera;

non ti dai pace e questo mi spaventa

- più del dolore la follia che t'incanta...

***

Vorrei dedicarti versi d’amore

consonanti e vocali che declinano il tuo volto

e rivelarti nel palmo della mano aperta

epica senza bandiere

come pane all’affamato, sangue

alla passione più vera.

                                    Dorme

un demone antico nei nomi e nei verbi

e trema il fonema

a pronunciarti nell’osceno

di questa terra morta.

***

L’impoetico dorme nella mia scrittura
lo trovo nei segni di questo paesaggio
nello scompiglio di mozziconi di palazzi
che s’affacciano violenti in riva al mare.

I segni che mi nascono dentro
non hanno voce né figura.

Trovo la bellezza appena svolto l’angolo
e mi appare serena nella luce del mattino
fra il verde antico di colture abbandonate
la facciata materna d’una casa contadina;

brillano al sole aranci maturi
che nessuno coglierà.

Questo paese ha bisogno di tornare
al suo passato e riscriverne il copione
piantare nuovi alberi di ulivo, confidare
nel sorriso del mare, nel fresco aspromontano

con cuore infiammato e nella mano
il fiore giovane della ribellione
la bocca salata per lo sdegno e nello sguardo
civili orizzonti di collera.

(istruzioni per l’ascesa, VI)

Alla sapienza è affidata la salita

al conosci te stesso della vita

che sa ognuno per quanto ne sappia.

 

S’accorda il passo ma per tanto si salga

alcuno arranca su per la salita

greve il respiro e i muscoli induriti

da poco esercizio e da una vita

fiacca e sedentaria. Uno s’accoda

lo incita lo spinge l’incoraggia

né si cura se già in alto i compagni

scompaiono alla vista e i richiami

si fanno fiochi e lontani. S’inizia

insieme nell’ascesa e fino a quando

non arrivi anche l’ultimo in vetta

nessuno può pensare d’esserci arrivato

per davvero: è come se fossimo

su una grande nave, chi a poppa chi a prora:

dal capitano al mozzo, al clandestino

partito per fuggire più che per partire.

(istruzioni per la città, II)

In mezzo alla città si eleva un ponte

altissimo. Il tempo

vi scorre sotto le campate,

fra argini assolati dove alberi

s’affacciano e case. Uomini

e donne l’attraversano come

seguendo una traccia in cerca di un totem

da qualche parte sepolto trai i vialetti scuri

di un unico mondo diviso dal fiume.

 

Puoi fingere di credere a questo

eterno rito dell’andare e del venire

per le vie della città, puoi credere

al ponte, al tempo, ai rumori

di un cuore meccanico, ma se

aguzzi bene lo sguardo e l’udito

senti in un grido incarnarsi la città.

 

Non è un ronzio meccanico il suo rito,

soltanto un altro modo di gridare.

(istruzioni per il viaggio)

Per capire cosa chiede

a lui questo cielo

l’uomo percorre strade e ripercorre

i segreti del mondo senza posa

 

e s’arresta e riprende

il suo andare come andare di formica,

di volto in volto e di voce

in voce s’insinua in sogni e veglie,

 

ammassa in scrigni tesori

e mai si ferma a ricordare

il primo volto, la prima voce,

il primo bacio che lo trasse dall’arcano

 

vagito della sua domanda

-l’uomo, l’essere che fabbrica

il suo inferno ubriaco di luce-.

(istruzioni per un sentimento trascendente)

Questa notte avverto il tuo respiro nell’anima di maggio

mentre dilaga la pianura

e sono in viaggio verso dove

non m’importa, verso

l’alba morta di domani

nel vociare stranito d’una stazione ferroviaria.

 

Ora intorno mi voli e m’osservi

dai lampioni gialli che corrono nel buio.

 

Io raccolgo il Tuo silenzio e riconosco

la Tua Voce fra mille

nella ruota che sferraglia

nel parlottio di idiomi sconosciuti

nel lontano tremolare delle stelle.