Visitare Lodi con Ada Negri
19 gennaio 2023
I TAPPA
Casa natale in Corso di Porta Cremonese 59
Il palazzo
“L’abitazione della bambina è la portineria d’un palazzo padronale, in una piccola via d’una piccola città lombarda.
Nel palazzo non vi sono che due inquilini, occupanti alcune stanze del secondo piano: un vecchio pensionato, magro, con la sua governante Tereson: una vecchia signora, grassa, che ogni mese cambia domestica. Il resto è tutto abitato dai padroni: gente ricca, gente nobile.
Quando rientrano in carrozza dalla passeggiata, bisogna spalancare il cancello del portone; e, siccome la nonna (custode della portineria) è troppo indebolita dagli anni, è la bambina settenne che deve farlo” (Stella mattutina, 1921).
“Rivedo la stanza terrena del palazzotto di Lodi, le pareti nude con chiazze di umidità, il focolare in un canto, nero di fuliggine, grigio di cenere, e la nonna con la cuffia, immobile nella poltrona” (Il passerotto, da Di giorno in giorno, 1932)
Il Giardino del tempo
Lo ha chiamato ella stessa «Il Giardino del Tempo», per le ore che vi sentì scorrere, in continuità di silenzio; e perché un vespro di domenica, ascoltando le campane della vicina chiesa del Carmine, vi ebbe la sensazione d’aver sempre udito e di dover sempre udire suonar quelle campane. Sensazione d’eternità: abolito il nascere, abolito il morire. Nel tempo.
Porterà con sé il suo giardino. E le campane della chiesa del Carmine. E il tempo (Stella mattutina, 1921).
Il giardino s’infittiva, per lei, di fronde e di canti d’uccelli. Il morir dell’aprile metteva ai rosai, ancóra senza fiori, foglioline nuove, sanguigne nel sole: le rosee magnolie precoci cominciavano a sfiorire, le serenelle a schiudere i grappoli violacei d’un amaro sentore. Ella avrebbe lasciato il tempo trascorrere sempre così (Il denaro, da Le solitarie, 1917)
Giardino sempreverde: pini, magnolie, un cedro del Libano, pochi fiori, molta erba, profondità di ombre, sapienza di nascondigli. Giardino più bello al mondo non c’è (Stella mattutina, 1921).
“Altri giardini, nel corso degli anni, ho, prima del giardino di Delia, abitati, goduti, sofferti, perduti. Quello dove trascorsi l’infanzia e l’adolescenza, nella mia città natale: internato fra strada e vicolo, con un sereno portico che lasciò in me, costante, il bisogno visivo dell’arco e delle colonne. Allora mi sembrava immenso; ma quando lo rividi dopo lunghissima lontananza, piccolo, remoto, estraneo, mi venne da piangere. E alzai gli occhi a una finestra sotto gli embrici, ch’era stata la mia; ma non mi disse più nulla” (Il giardino perduto, da Erba sul sagrato, 1939)
Del giardino diventa assoluta padrona nell’estate, quando i signori della casa se ne sono andati in campagna. Le mancano da un giorno all’altro le compagne di gioco; ma non se ne addolora per nulla.
Ha il suo regno.
Lo sa tutto a memoria, lo ha tutto nel sangue, dal più piccolo sassolino della più nascosta rédola alla più rugginosa foglia d’edera avviticchiata con il gambo ad un angolo di muro. Sdraiata sul ventre, i gomiti affondati nell’erba, si gode con la voluttà d’una lucertola le ore canicolari, leggendo qualcuno de’ suoi libri magici. Vede formiche andare, ode mosconi ronzare, cicale frinire, frasche stormire, campane suonare. Sente il buon calore terrestre entrarle nelle vene, e le pare di poter vivere sempre così. Ha una quantità di amici nel giardino; e ciascuno le vuol bene a suo modo. Il ginepro che porta tante amare còccole verdazzurre la considera un poco d’alto in basso; ma l’erba salina è così piacevole a masticarsi, così acidula ed eccitante al palato!… Le pazze rose giallo-carnee che assaltano il muro a ponente, dietro le tre magnolie di duro lucentissimo smeraldo, si ridon di lei, pungendole le dita e sfogliandosi súbito nelle sue mani; ma il boschetto di magre betulle la conduce dolcemente, nell’ombra ricamata di sole, ad un cancelluccio a chiavistello che guarda su una straducola. Le piace, quella straducola. Pensa: «È mia».
Ella è profondamente innamorata del sole. Sa che il suo colore è più splendente in luglio, più intenso in agosto, più riposato nel settembre; e che nulla è più soave agli occhi di una pallida lista di sole sui tetti in febbraio, quando dimoia e soltanto qualche ultimo sprazzo di neve biancheggia qua e là sugli émbrici. Potrebbe, come una meridiana, dir l’ora precisa secondo il punto del giardino dove arriva il sole.
Gode di starsene sull’uscio di strada della portineria: in piedi contro uno spigolo, oppur seduta sullo scalino di pietra.
Quanti odori ha la strada!…
D’uva matura e di nespole in autunno: di pere cotte e di caldarroste nell’inverno, e d’arance verso Natale: per via de’ carretti che i rivenditori ambulanti di frutta spingono in giro, con certi richiami ritmici che a lei dànno un senso di rigogliose campagne lontane, mai vedute e pur ricordate (Stella mattutina, 1921).
II TAPPA
Tempio dell’Incoronata
Tutti vanno all’Incoronata. L’Incoronata è uno scrigno del Bramante, nell’interno del quale maestose figure di Madonne e di santi vivono su pareti rivestite d’oro. L’Incoronata è tutta d’oro; ma il tempio di San Francesco, povero, nudo, vigila, poco lungi, come il cuore nel corpo (Stella mattutina, 1921).
III TAPPA
Broletto
“Cara, nobile città dell’infanzia e dell’adolescenza! La piazza del Duomo, con i leoni di pietra a guardia della cattedrale, protetta dal campanile un po’ tozzo, è stupenda di vita nei mesi di prima estate, quando il mercato dei bozzoli la riempie di splendenti cumuli d’oro e d’argento, e brulicano sotto i portici e dinanzi alla chiesa i robusti fittabili della Bassa, con gran gesticolare, gran moto e odore e rumore d’umanità in faccende. Piazza Broletto, dietro il Duomo, ne guarda l’abside austera, ornata in alto da mensole e piccoli archi di cotto, così belli che cantano da sé le lodi del Signore. (Stella mattutina, 1921).
IV TAPPA
Cattedrale
“E mi rividi bambina di otto o dieci anni, nel duomo di Lodi, alla messa di Natale. Quei lumi nella chiesa, quei festoni vermigli listati d’oro, quell’aroma d’incenso, quei sacerdoti coperti di stole gemmate, quei salmi latini alternati a larghe e sonore melodie d’organo mi saziavano di felicità. In un angolo, fra ceri, fiori e lampade, splendeva il presepio” (Miss Meg, da Sorelle, 1928).
V TAPPA
Piazza Ospitale e San Francesco
Tempio antico (da Tempeste, 1895)
(Chiesa di San Francesco, in Lodi.)
Antico tempio maestoso e nero
Ov’io, pensosa adolescente, orai,
Te grave d’anni e d’ombra e di mistero
Antico tempio, io non iscordo mai.
Sorridean le Madonne del trecento
Miti ed ingenue, sui giallastri muri.
Qualche prete sbucava a passo lento
Come una larva, dagli sfondi oscuri.
V’era come un odor di vecchie rose,
Un odore di mammole appassite;
V’era il silenzio de le antiche cose
Nel tramonto dei secoli sopite.
V’era una lampa giorno e notte accesa
Come un triste desìo, sopra un altar,
E a me là giù, sul bianco marmo stesa,
Parea dolce il pregare ed il sognar.
*
Ore inspirate, quando a me fanciulla
L’organo ripetea sacra un’istoria,
E m’assopiva come in una culla
Un’ebbrezza fatidica di gloria;
Ore inspirate, quando in me, bollente,
Spumeggiò l’onda de le strofe prime,
E mi travolse appassionatamente
La vertigine azzurra del sublime;
Ore perdute fra le nebbie d’oro
Di quel che non ritorna aulente Maggio,
Come di rondinelle agili un coro
Sciolto a volo pel ciel fra raggio e raggio;
Ore di sogno e d’ideale incanto,
Io vi ricordo, io vi ricordo ancor;
E mi strazia per voi sordo il rimpianto
Di chi rimembra un soffocato amor.
*
Avanti, avanti.—Il tempo mi sospinse
senza riposo, sul cammino incolto:
Una rete di fili aspri m’avvinse,
Ma lo sguardo a l’azzurro è ancor rivolto.
Avanti….—ma al passato un dolce, intenso
Desìo la torturata alma rimena.
…. O profumi di gigli e vecchio incenso,
Nel grave tempio ov’io pregai serena!…
O ceri, o arcate, o pace di convento,
O larve erranti negli sfondi oscuri,
O gracili Madonne del trecento
Che impallidite sui giallastri muri;
Tutto il mal ch’io commisi e ch’io soffersi
Fra voi, fra voi vorrei dimenticar;
Fra voi, sui marmi benedetti e tersi,
Le preci dei sereni anni cantar.
Piazza di san Francesco in Lodi (da Maternità, 1904)
Se de la patria il giovanile e fresco
disìo sale al mio cor come un incenso,
tutta bianca nel sole io ti ripenso,
piazza di San Francesco.
Cresce fra le tue pietre, o solitaria,
tranquilla l’erba come in cimitero.
—Sole e silenzio.—Un passo—un tremar nero
d’ali, fendenti l’aria.
Ed eran quel silenzio e quella pace
che in te bevevo a sorsi larghi e puri;
e il bacio amavo su’ tuoi vecchi muri
de l’edera tenace.
L’antico tempio, presso l’ospedale,
svolgea sue linee semplici e divine.
Per due bifori in alto, snelle e fine,
rideva il ciel d’opale.
L’antico tempio avea canti e colori
d’una soavità che ancor mi trema
dentro.—O speranze, o poesia suprema
de gli anni miei migliori!…
Gravi note de l’organo, salenti
a gli archi de le vôlte longobarde,
su l’alte mura tremolar di tarde
stelle e fluir di venti!…
Come un suggello mistico al pensiero
da voi mi venne—e forse ho sempre amate
per voi le grigie case abbandonate
ove dorme il mistero,
i muschi densi a piè de l’erme, i queti
cortili pieni di sole e di verde,
i portici de i chiostri ove si perde
l’anima de i poeti;
i tristi luoghi ruinanti in pace
ove sol parla il soffio de le cose,
de i sogni morti e de le morte rose,
e tutto il resto tace.
Piazza di San Francesco in Lodi (da Vespertina, 1930)
Torno a quei dì, rivivo il sogno antico
nella piazza deserta. È pur quell’erba
fra pietra e pietra; e quel silenzio, intorno;
e a destra e a manca, quelle strette vie
piene di sole, ov’io spiavo, dalle
chiuse pusterle – un lampo era negli occhi-,
maraviglie di chiostri e di giardini.
Dal vano delle due bifore ancora
sorride il cielo con pupille azzurre
sulla facciata del mio San Francesco:
sguardo di bimbo in tormentato volto
di vegliardo che tutto a me perdona.
S’entro nel tempio, presso la cappella
dei Fissiraga rivedrò la panca
dov’io conobbi i rapimenti primi
della preghiera; e tra la pinta selva
delle colonne cercherò la mia
Madonna, quella che adorai, che mia
soltanto fu, che nel ricordo augusta
sempre mantenni, come là sul plinto:
chiusa in un manto d’ermellino, bianca
imperatrice al divin Figlio serva.
Ma non entro. Non oso. Ai piedi l’erba
crescere ascolto fra le pietre; e attendo
non so quale miracolo, che desti
in me l’adolescente addormentata.
Forse, piccola, rapida, col bruno
scialletto a frange, con la quadra faccia
pronta al sorriso, verso me, nel sole,
verrà mia madre. Mi dirà: «Non sai
ch’è festa? Vieni, figlia: andiamo ai vespri.»
Sì, mamma: andiamo. Il nostro dolce tempo
non è passato. Tu sei viva. Il mio
corpo ancora non sa d’essere un corpo,
come il virgulto ancor non sa qual fiore
celi. Non feci il male, non commise
il male altri per me, nessuno il piede
mi calcò sopra l’anima, che illusa
s’era, per lui, di gioia. Non è vero
che adesso è tardi, che non basta ormai
quel po’ d’anni o di giorni a rifar l’opra
che fu dispersa, a rimediar l’errore
che fu compiuto, a richiamar chi fugge.
Andiamo ai vespri. Della mia sì dura
alla sua pena, sì tenace al giogo
che a se stessa costrinse, infausta vita,
nulla voglio rimanga in questa terra.
Sol la mia fanciullezza, sulla soglia
della mia chiesa: e tu, mamma: e nel cuore
segreto il germogliar della speranza.
VI TAPPA: Chiesa di santa Chiara nuova
VII TAPPA: Via delle Orfane
“Via delle Orfane pregante in solitudine, antica e povera, tutta sassi, con un sottile marciapiede da un sol lato: dall’altro non ha che una muraglia bassa, a difesa di vasti giardini. Via delle Orfane piena di conventi, e di tacite case private simili a conventi. Quando il sole vi batte, chi passa vede troppo bene, in quel vuoto silenzio, la propria ombra; e ne rimane turbato. Canti e cinguettii d’uccelli vengono dai nascosti giardini: suoni di campanelle claustrali, tremuli d’umiltà e chiari d’innocenza, salgono dai cortili e dagli oratòri interni.
Per Dinin, via delle Orfane si trasfigura spesso in una strada- cimitero, fiancheggiata da cappelle mortuarie, sulla soglia custodite da un invisibile angelo.
La chiama, dentro di sé, «la strada dei morti»; ma non ne ha paura: da quando vide la nonna sul suo letto di serenità, i morti sono per lei più calmi e più benevoli dei viventi.
In fondo, forma angolo con un vicolo: sudicio, oscuro: gli ha messo nome «il ladro», perché le sembra un ladro in agguato. Proprio su quell’angolo sta la casa dello zio, maestro di scuola” […] Via delle Orfane è là, irta di sassi, gialla di calce e di sole, con le mute ombre ritte sulle porticine claustrali, a guardia di tombe che una sola creatura conosce” (Stella mattutina, 1921).
Il busto di Ada Negri opera di Gino Oliva; e il Centro Studi.
Via Tresseni
“Via Tresseni affondata nel verde ha l’aspetto d’una scorciatoia di bosco” (Stella mattutina, 1921).
Vie Gaffurio, via Fissiraga, Porta regale
“Altre e altre strade, gravi di storici nomi, Gaffurio, Fissiraga, Porta Reale, mostrano file di palazzi che sembrano, da secoli, deserti; e non v’è sagoma di pietra o chioma d’orto spiovente da un muro o singolarità di luci e d’ombre che non sia già, per la fanciulla, vita nella vita.
Nei chiassuoli, nei vicoli si soffermano gli organetti di Barberia, chiamando ragazzine e monelli sugli usci, con stonate arie di danza. Ella resta immobile, sulle cantonate, ad ascoltare quelle melodie che paiono zampillare dai sassi, e dal cuore della plebe: quando l’organetto se ne va, lo segue, a qualche passo dalla ragazzaglia; e vorrebbe andargli dietro, chi sa dove, per il mondo” (Stella mattutina, 1921).
CASA NATALE
Il 3 febbraio 1870 alle cinque pomeridiane Ada Negri viene alla luce in Corso di Porta Cremonese 59 (oggi Corso Roma 127) nella portineria di palazzo Cingia-Barni, dove lavora come custode la nonna materna Giuseppina Panni Cornalba, già governante del soprano milanese Giuditta Grisi Barni a Robecco d’Oglio. È figlia di Vittoria Cornalba e Giuseppe Negri. Il 4 febbraio viene battezzata dal coadiutore della Parrocchia del SS. Salvatore, don Giacomo Conti: nel registro i nomi risultano (in un latino approssimativo) “Hada, Aloysia, Theresia, Josepha Maria”. L’anno seguente muore per febbre tifoidea alla Cà Granda di Milano il padre, che viene sepolto al “Gentilino”, il cimitero di Porta Ticinese. Vittoria torna quindi con Ada a Lodi, vivendo con la madre nella portineria, mentre il primogenito Annibale (Nani) di due anni è costretto ad abitare presso lo zio materno Annibale Negri in via delle Orfane. Vittoria riesce a impiegarsi come operaia per tredici ore al giorno di lavoro, con una paga giornaliera di 1 lira e 75, nel lanificio fondato nel 1868 da G. Varesi, S. Cremonesi, L. Cingia e A. Lombardo in zona Selvagreca.
INCORONATA
Il Tempio civico dell’Incoronata fu progettato nel 1488 da Giovanni Battagio, allievo / collaboratore del Bramante: è completamente decorato da affreschi, tavole, tele realizzate dai maggiori artisti operanti a Lodi tra XV e XIX secolo, in particolare dalla famiglia di pittori Piazza. Tra il 1497 e il 1500 inoltre Ambrogio Bergognone, fra i principali maestri del rinascimento lombardo, fu chiamato a decorare la cappella dell’altare maggiore, con un affresco, distrutto nel Seicento, e realizzò le quattro celebri tavole con Annunciazione, Visitazione, Adorazione dei Magi e Presentazione al Tempio, ora nella cappella di S. Paolo.
BROLETTO
Solo la parete in cotto che si affaccia sull’antico cortile è testimonianza della sua fondazione, da collocare entro il 1284; la loggia fu rifatta nel 1656 dall’architetto Agostino Pedrazzini; la facciata è del 1778, opera dell’Ingegnere Castelli di Milano. Vi si trovano due busti marmorei realizzati nel 1615: a sinistra Gneo Pompeo Strabone e a destra Federico Barbarossa.
Nel cortile è posto l’antico fonte battesimale della Cattedrale donato da Bassiano da Ponte nel 1508: ricavato da unico blocco di marmo rosa di Verona, presenta forma esterna ottagonale mentre quella interna è quadrilobata; in origine si trovava nella prima cappella destra della Cattedrale.
CATTEDRALE
Costruita fra 1158 e 1163 (ma la facciata fu completata solo nel 1284), è a pianta basilicale con tre navate, subì nei secoli vari interventi: rosone e bifore della facciata (inizio XVI secolo), torre campanaria (metà XVI secolo), ma soprattutto il rifacimento in forme barocche tra 1760 e 1764; fu infine “ripristinata” in “forme romaniche” negli anni 1958-1964 dell’architetto Alessandro Degani.
SAN FRANCESCO
Nel 1252 il vescovo Bongiovanni Fissiraga introduce i Francescani in Lodi concedendo loro la chiesa di San Nicolò con le case e i terreni circostanti di proprietà della famiglia Pocalodi. È probabile che la cappella di san Bernardino sia stata realizzata inglobando una struttura precedente, forse la torre del palazzo dei Pocalodi. Nel 1289 l’architettura doveva essere a buon punto, con il transetto terminato, poiché nello stesso anno viene tumulato nella testata settentrionale, entro un sacello marmoreo sostenuto da colonne, il corpo del vescovo Bongiovanni. È probabile che la facciata sia stata interrotta a causa di cedimenti strutturali, essendo la chiesa collocata a ridosso del pendio del colle Eghezzone. All’interno la ricca decorazione pittorica vede affreschi votivi di epoche diverse, dal primo Trecento alla metà del Settecento.